Mentre il governo gialloverde veleggia verso destini di gloria imperitura (non si vota in autunno, il governo Conte farà la manovra economica del 2020, Salvini continua a chiudere i porti a tutte le navi che arrivano sulle coste), le due principali opposizioni presenti nel Paese – Pd e FI – si trovano alle prese con problemi interni non di poco conto.
FI e Pd sono, oggi, due partiti “in cerca di autore”
In buona sostanza, entrambi i partiti cercano di ritirare fuori la testa dopo le batoste elettorali subite alle Politiche come alle Europee come pure, di fatto, alle ultime Regionali e, soprattutto, cercano un ubi consistam che non trovano più. Certo, i problemi sono assai diversi. Forza Italia non riesce a superare la sindrome del Cavaliere, e cioè la presenza (e, anche, assenza) di Silvio Berlusconi, che quel partito ha fondato, nel lontano 1994, e lo ha portato a importanti risultati, oltre che al governo del Paese, ma che oggi è finito in una spirale di odi, vendette e rancori – più personali che politici – che lo hanno reso fragile, debole, inconsistente.
Invece, il Pd è passato, nel breve volgere di un anno, dalla gestione Renzi alla gestione Zingaretti. Nella forma, è cambiato tutto, nella sostanza è cambiato poco. Sia perché Zingaretti non riesce ancora a imprimere carattere e volto (il suo) a un partito che sente ancora su di sé il portato della gestione Renzi, sia perché i gruppi parlamentari sono rimasti, nella loro quasi assoluta totalità, in mano ai renziani (ex, post e neo). Infatti, le liste elettorali, per le Politiche del 2018, le compose, appunto, lui, Renzi. Prova ne sia che i renziani, vedremo, ancora contano, nel Pd.
E così, entrambi i partiti, che pure vorrebbero rinascere dalle proprie ceneri, non riescono a darsi quello sprint decisivo, quel colpo di reni che può servire a re-imporsi. Certo, nelle aule parlamentari, sia il Pd sia Forza Italia ‘fanno il loro’: intervengono, fanno opposizione (dura). Ma nel Paese di loro si sente parlare poco e persino sui media (giornali, agenzie, talk show, social) la loro presenza, da imponente e massiccia che era, è oggi sostanzialmente di risulta. Infine, entrambi i partiti sperano – e mirano – a riconquistare centralità e spazio politico al centro, ma in un ‘mercato’ dove Salvini occupa tutti gli spazi possibili e i 5Stelle quel poco che resta, lo spazio è sempre minore.
È il centro l’unico spazio politico ancora rimasto libero
Ecco, ci sarebbe il famoso ‘centro’, quello spazio politico “che ci sia ciascuno dice, dove sia nessuno sa”, come – appunto – l’Araba Fenice nella versione del Metastasio. Uno spazio, però, oggi di fatto abbandonato e non coltivato, che vede un forte astensionismo da parte dei suoi – presunti – elettori (orfani) e soggetti sociali che, in realtà, ci sarebbero, e pure pronti, alla bisogna, ma che, in assenza di una forte offerta politica, latitano o si ritraggono. Lo dirà, oggi, a Montecatini, un cattolico sturziano come Fioroni, che girà l’Italia, con successo, parlando di Moro e La Pira. Eppure, proprio lì, al centro, è la chiave per cercare di risollevare entrambi i partiti, Pd e FI. Infatti, il Pd ha raschiato, a sinistra, il fondo del barile e Forza Italia, a destra, è schiacciata dalla Lega e da FdI, ma non riesce più a coprire il centro. Insomma, al di là di definizioni come i “alla caccia dei moderati”, se Pd e FI vogliono sperare di tornare ‘centrali’ possono farlo solo occupando il centro. Ma chi, dentro entrambi questi due partiti, vuole farlo?
Dentro Forza Italia l’offensiva la lancia Giovanni Toti
Perennemente in bilico tra Forza Italia - di cui è diventato da poco coordinatore insieme a Mara Carfagna - e le sirene leghiste (doveva svolgere il ruolo, ove avesse rotto in modo insanabile con Berlusconi, il ruolo di ‘terza gamba’ di un centrodestra a trazione leghista insieme alla Meloni), il governatore ligure Giovanni Toti ieri ha aperto la convention a Roma del suo movimento, “Italia in crescita”, con l’ennesimo affondo polemico nei confronti dei vertici del partito che, però, è stato chiamato a dirigere. “Siamo qui perché in questi anni c’è stato un declino del nostro mondo senza nessuno che vi ponesse rimedio”, dice. E ancora: “Non abbiamo saputo cogliere i cambiamenti nel Paese. Altri lo hanno fatto. Sono stati commessi degli errori. Gran parte della nostra classe dirigente o non se ne era accorta o ha fatto finta di niente”. Poi, la stoccata: “La nostra effervescenza fa un po’ paura a qualcuno. Siete coraggiosi a essere qui nonostante la minaccia di alcuni dirigenti”. Infine, Toti lancia la sua ricetta, partire dalle primarie del centrodestra: “Vorrei fosse chiaro che non sto parlando di primarie di Forza Italia ma di primarie aperte a tutti. La classe dirigente del partito deve abituarsi all’idea di convivere in un luogo più largo con più persone. Non possiamo più fare la parte della formica con la Lega che è un elefante”. Ecco, dunque, il suo guanto di sfida: “Farò le primarie con chi vuole partecipare. Spero che Forza Italia ci sia”. Che è come dire: FI potrebbe anche ‘non esserci’, ma io andrà avanti lo stesso. Con o senza FI.
Il tutto avviene in un tripudio di cartelli con l’hashtag #IostoconToti in un teatro Brancaccio molto affollato in cui si affacciano alcuni volti noti di Forza Italia che hanno deciso di schierarsi con lui. Tra gli altri, si notano Laura Ravetto, Paolo Romani, Osvaldo Napoli, Francesco Giro, oltre a Vittorio Sgarbi, che fa il consueto show. Ma le prospettive del movimento sono ancora tutte da definire perché gli attacchi di Toti al partito di Berlusconi sono stati continui, e da mesi. Lo stesso Toti, ieri, ha avuto un confronto con il leader di Forza Italia, sempre più irritato, anche se il governatore assicura che i toni sono stati distesi.
Le delegazioni dei fan ‘totiani’ sono arrivate da molte regioni d’Italia: Benevento, Lecco, Milano, Liguria, Lazio, Campania, Bergamo, si legge su alcuni degli striscioni. A margine c’è spazio anche per una performance di Sgarbi: “Il marchio di Forza Italia è un marchio consumato. Berlusconi resti come padre nobile, ma non alla guida. A Toti va riconosciuto di essere stato il precursore secondo cui Berlusconi è un padreterno, ma va individuato un nuovo leader che, a mio avviso, deve essere uomo perché FI è maschilista. Le primarie? se ci sono mi candido”.
La variabile Carfagna che contende a Toti la leadership
Come finirà? Ancora non si sa. In teoria, la sfidante alle primarie di Toti c’è e si chiama Mara Carfagna. Ex valletta e showgirl della tv che si è messa a studiare e che, oggi, è diventata un esponente politica valida e autorevole, la Carfagna – non solo per la sua carica di vicepresidente della Camera – gode della stima e dell’appoggio di molti, dentro FI. Sta con lei, ovviamente, tutto il Sud azzurro, dal plenipotenziario siciliano Gianfranco Micciché all’europarlamentare molisano Aldo Patriciello, passando, ovviamente, per la ‘sua’ Campania, ma gode di consensi anche al Centro e al Nord, dove però, specie in Lombardia, le fa concorrenza Mariastella Gelmini. La capogruppo di FI alla Camera, infatti, ‘gelosa’ delle fortune della Carfagna, avrebbe voluto lanciarsi lei, alle primarie azzurre, e non è detto che, prima o poi, lo faccia. Potrebbe ‘scippare’, alla Carfagna, la Lombardia, dove la Gelmini è radicata, e indebolirla, specie al Nord. Si vedrà. Di certo, il ‘campione’ di Berlusconi alle primarie azzurre è la Carfagna e se si dovesse scommettere su chi, dentro il ‘corpicino’ azzurro, è più in grado di intercettare il centro e i moderati, non potrebbe scommettere che sulla Carfagna. Toti, ieri come oggi è, di fatto, un leghista di complemento. Ma ancora non si sa se, davvero, FI farà le primarie, in autunno, e andrà davvero a un congresso ‘democratico’. Alla fine, a decidere sarà sempre lui, Silvio Berlusconi. Il quale pensa ancora – come ha detto a Putin, in visita in Italia – di poter ‘ricondurre a ragione’ il “ragazzo Salvini”.
Intanto, le due capogruppo di Forza Italia a Camera e Senato, Gelmini e Bernini, azzannano la prima uscita di Toti: “Azzerare le cariche? Cominci da se stesso e la smetta di mancare di rispetto al partito. E’ solo molto ingeneroso”. Insomma, dentro FI, “stiamo di capo a dodici”, come si dice a Roma. Le primarie potrebbero anche non farsi per aperto abbandono, con porta sbattuta, proprio da parte di Toti che potrebbe costruire, con Lega e FdI, un polo ‘sovranista’.
Nel Pd la strategia di Zingaretti subisce un arresto
Spostiamoci, ora, sul Pd. Il neo-segretario, Nicola Zingaretti, ha appena subito uno smacco che, seppur non voluto, gli metterà il piombo nelle ali, da oggi in poi: Salvini ‘non rompe’ con Di Maio e il governo Conte andrà avanti tutto il 2019 e, forse, anche a buona parte del 2020. Le elezioni anticipate ‘non’ sono più alle porte. Ergo, Zingaretti non può più puntare all’obiettivo ‘grosso’ che aveva – dopo quello, ovvio, di sfidare a viso aperto Salvini e Di Maio in singolar tenzone – e cioè cambiare i gruppi parlamentari, nominati da Renzi, per renderli a lui fedeli. La linea di Zingaretti, tra stop and go, va avanti, certo: il segretario si è messo a girare le fabbriche italiane, i luoghi delle crisi industriali, prova a riaprire sezioni in periferia e sfida Salvini su tutto lo scibile umano: manovra economica, conti pubblici, migranti, posizione in Europa, etc. etc. etc.
Renzi punta a riprendersi il Pd. Il problema è ‘come’
Ma la verità è che Renzi e i suoi, come raccontato in un precedente articolo su queste pagine, mirano a ‘riprendersi’ il Pd. Renzi, in un messaggino a un ex maggiorente dem, lo ha persino scritto: “Ci stiamo provando”. Riprendersi il Pd vuol dire approfittare delle – assai probabili – sconfitte alle prossime regionali (Calabria, Umbria e, soprattutto, Emilia-Romagna) e poi, subito dopo, chiedere a gran voce un “congresso straordinario” perché “con Zinga si perde”. Voci di corridoio parlano di una candidatura di bandiera dei renziana (l’ex cigiellina Teresa Bellanova, oggi senatrice), ma è chiaro che o Renzi scende in campo in prima persona oppure il tentativo sarebbe velleitario. “Stiamo aspettando di capire se Matteo è ancora ‘odiato’, dalla nostra gente, o ancora ‘amato’. Se lo fosse, il solo candidato vero è lui”, dice una renziana ‘alta’ e di stretta osservanza sotto ovvia garanzia di anonimato. I renziani di “Base riformista”, i cui coordinatori nazionali sono Lorenzo Guerini, presidente del Copasir ed ex braccio destro di Renzi nel partito, e Luca Lotti, ex ministro e oggi deputato semplice dem, finito nel tritacarne mediatico dello ‘scandalo Csm’, storico braccio sinistro di Renzi, ma oggi in fredda con lui – che in questi due giorni si sono incontrati a Montecatini – non gradiscono, si capisce, di essere identificati con i pasdaran del renzismo, patente che, invece, ben si addice all’area di minoranza congressuale che fa capo a Giachetti.
“Base Riformista”, gli ex renziani ‘orfani’ di Matteo…
Ma certo è che, a curiosare negli interna corporis della tre giorni di “Base Riformista” gli ‘orfani’ del renzismo si vedono e si sentono. Deputate come Morani, Malpezzi, Paita, Rotta, o deputati come Fiano, Borghi, Romano, Fanucci, sono ex vestali del renzismo militante che hanno sì deciso di accasarsi in modo diverso. Di piantare, cioè, la loro ‘tenda’ più vicina e dentro il Pd che lontana o fuori da esso. Come stanno facendo, invece, i renziani ortodossi dell’area Giachetti-Ascani, ma anche i colonnelli renziani come Ettore Rosato, Ivan Scalfarotto e Sandro Gozi, che hanno dato vita ai ‘Comitati civici’ di Renzi, primo appuntamento nazionale sabato 13 luglio a Milano – ma certo è che il loro core business politico, ideologico (sic) e sociale dagli ‘anni splendenti’ di Renzi è assai vicino. Oggi parleranno Antonello Giacomelli e molti altri, ma il mood quello è: proseguire il renzismo, con o senza Renzi.
Guerini avverte: “Torni la vocazione maggioritaria”
Trattasi di renziani non col coltello tra i denti e non ancora incattiviti dalla ‘sterzata’ filo-Ditta che il Pd di Zingaretti ha dato al partito, ma che restano comunque sul chi va là. Non a caso, oggi, nelle conclusioni della tre giorni di “Base Riformista”, Guerini – con il suo consueto stile da ex-dc (tendenza Forlani) – metterà le cose in chiaro. “Dirò – spiega a Tiscali.it in una pausa dei lavori del pomeriggio – che il Pd deve tornare a essere ‘a vocazione maggioritaria’, che deve accettare la sfida del governo, per tornarci presto, e che i moderati non possono essere abbandonati a sé stessi o essere preda di Salvini. A Zingaretti – aggiunge Guerini – dirò chiaro che noi non vogliamo posti, siamo e restiamo minoranza, nel partito, che collaboreremo con lealtà alle scelte che prenderà, ma non a costo di perdere la vocazione riformista e la vocazione maggioritaria che ha fatto grande il Pd”. Eccolo, dunque, di nuovo, l’anelito a conquistare – o, meglio, a ‘riconquistare’, il centro, i moderati, i cattolici.
E se si pensa che si tratta della tosse della pulce, Guerini snocciola alcuni numeri, di cui va particolarmente fiero: “Siamo circa 70 parlamentari, contiamo su 32 membri in Direzione e 220 delegati in Assemblea nazionale. Siamo, cioè, il 20% circa del partito. Inoltre, circa 1500 persone si sono avvicendate, in questa tre giorni, col caldo che fa, contiamo su una bella rete di amministratori locali, i sindaci di Firenze e Bari, Nardella e De Caro, guardano a noi, è venuto qui il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio”.
Delrio vuole “riformismo forte” e un partito “laburista”
Ecco, appunto, Delrio. Bello e importante, il suo intervento, ma con un ‘ma’ significativo: “Salvini vuole fare dell’Italia l’Ungheria di Orban, l’M5S manca di senso democratico delle istituzioni, bisogna lottare per i diritti fondamentali delle persone, migranti compresi, difendere la Patria e la Costituzione, avere cura delle comunità locali, dei sindaci, ma anche del Paese, cui fare discorsi di libertà e di verità. Serve un riformismo forte, alto, ma radicale, deciso. Dobbiamo essere un vero partito laburista senza rinnegare le buone cose fatte durante i governi Renzi” (il governo Gentiloni, Delrio non lo cita mai, come se non esistesse). Parole che, a Zingaretti, potrebbero anche andare bene, ma come coniugare il ‘riformismo’ con le libertà e il lavoro? Base riformista si fa queste domande, la risposta non c’è. Una cosa è certa: Zingaretti, oltre che con Renzi, dato che non si vota, dovrà far i conti con loro. Caso Libia docet.
di Ettore Maria Colombo
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