Se una data di scadenza a questo governo esiste, è celata sul retro del contratto da cui tutto è partito. Consumarsi preferibilmente non oltre le Europee… Almeno sembrava questo il pronostico dei più e il fine ultimo e, nonostante la tornata elettorale abbia segnato la netta vittoria della Lega ai danni del Movimento 5 Stelle, le cose in casa giallo-verde ancora non precipitano.
Anni di bombardamenti da gossip selvaggio ci hanno istruito, se non altro, su alcune regole base assolutamente inviolabili in fatto di unioni: quando la coppia scoppia (e prima o poi scoppia) è bene essersi tutelati con anticipo. Un documento controfirmato da ambo le parti è il modo migliore per garantirsi una convivenza spensierata e una separazione – almeno in termini materialistici – indolore. Strategia mutuata in tutto e per tutto dalla coppia Salvini-Di Maio, che in nome della responsabilità nei riguardi del Paese e dei loro elettori (così ci dissero), misero da parte rancori e differenze per dar vita al "cambiamento".
Purtroppo uno fa i programmi per vederseli smontare e persino il più sordo o il più cieco tra gli osservatori si è in breve reso conto che la natura di questa insolita alleanza era doppia, come doppie erano le intenzioni degli attori principali quando hanno scelto di essere della partita. Che dietro alle pacche sulle spalle, ai sorrisi spassionati e alle prime uscite della serie “alla fine non sono affatto male questi grillini” o “con la Lega lavoriamo d'amore e d'accordo” si celasse dell'altro, molto altro, non era difficile prevederlo. Di Maio e il Movimento avevano appena raggiunto il loro apice e pur di prendersi le sedie in prima fila avrebbero fatto carte false e stretto le mani pressoché a chiunque. Salvini era a metà di quel miracolo che lo ha visto, nel giro di cinque anni, prendere un partito orfano e smarrito e portarlo ad essere la prima forza politica del paese e, come poi si è dimostrato, aveva tutte le ragioni per stringere l'accordo. E tra i due, a garanzia della "pacifica" convivenza, lo sconosciuto, quel Giuseppe Conte che sembra ogni giorno di più una bussola senza Nord e che non ha saputo resistere alla tentazione di scendere in campo.
Doppie intenzioni, si diceva: se per Di Maio e tutta la squadra era la prova del nove per poter finalmente toccare con mano le leve del potere e – ma questo lo avrebbero scoperto dopo – fare mea culpa sulle enormi lacune, in fatto di candidati, competenze e organizzazione, messe in evidenza dal partito, per il leader leghista l'esperienza da ministro è stato il definitivo trampolino di lancio che gli ha permesso, nel giro di poche lune, di fagocitare qualcosa come due milioni di voti alla controparte e ingranare la marcia definitiva per prendere in mano il timone. E ora che è ben saldo tra le sue mani, il Capitano naviga a vista, chissà, forse indeciso sul da farsi, forse in attesa del vento giusto per compiere un'altra manovra. Proprio sulla futura manovra economica si sono spostate le puntate di chi pronostica la fine del governo. I conti in rosso, i richiami dell'Europa che potrebbero diventare sanzioni, gli inviti del Colle a tenere basso il livello dello scontro e un esecutivo paralizzato, che non si parla e i cui rappresentanti se le mandano a dire a mezzo stampa, sembrano qualcosa di più di segnali di cedimento e ritornare alla fase pre campagna elettorale – quando, seppur forzati, i sorrisi ancora c'erano – sembra pura utopia. “Quei giorni passati a rincorrere il vento”, cantava De André, sembrano acqua passata. Mesi di scaramucce e insulti, gettati in pasto alla platea nell'eterna caccia al consenso, ma pur sempre frecce avvelenate, hanno logorato un rapporto virtuale, mai davvero sbocciato e comunque tenuto in piedi dai freddi vincoli di un contratto e dagli ordini di scuderia. Fingere che il sorpasso del 26 maggio non porti con sé scorie non smaltibili è impensabile anche per chi tra tranelli e doppiogiochismo sguazza da sempre. Trovare la quadra anche sulle piccole cose, limare i dettagli e giungere a compromessi (governare) appare ogni giorno di più una missione impossibile per questa maggioranza.
Confermato Di Maio, la linea grillina ora sembrerebbe chiara e semplice: mantenere alta l'asticella del dibattito interno per arginare l'avanzata leghista e tentare di recuperare consensi persi quando si è preferito fare da scudieri e non prendere il toro per le corna. Oppure, come pensa qualche "Dibbattistiano", scegliere tra tutti il tema di maggiore scontro con la Lega (Tav?)e far cadere su quello il governo per recuperare la credibilità perduta. In ogni caso siamo nell'ottica delle illazioni.
Dall'altra parte della barricata, tra ostentazioni di fermezza e sicurezza da leader consumato e sordità tipica di chi non vuol sentire gli appelli dei suoi che, fosse per loro, sarebbero già tra le braccia di forzisti e meloniani, Salvini tergiversa, dando un giorno l'impressione di essere deciso a far saltare il tavolo, per vederlo solo poche ore dopo raccogliere i cocci e risistemare la tovaglia. A preoccuparlo, dicono, c'è la scure del Quirinale che, in caso di morte prematura della "creatura giallo-verde", potrebbe optare per un governo tecnico che abbia come imperativo la salvaguardia dei conti e che lo relegherebbe nuovamente al ruolo di figurante, con meno voce in capitolo e meno apparizioni televisive. Ecco perché, dietro la strumentale escalation di tensioni che non accenna a placarsi, non più finalizzata a fare il pieno di voti ma a sancire il punto di rottura, si gioca la sottile partita degli equilibri tra la Lega e i grillini tornati al loro ruolo naturale di oppositori/inseguitori. Una partita in cui nessuno dei due vuole macchiarsi dell'infamia di essere il responsabile che ha staccato la spina e in cui è il modo in cui si diranno le cose che farà la differenza. «Chi tradisce il contratto di governo tradisce il paese», la summa, a conferma di quanto detto, pronunciata dal capo politico 5 Stelle. Sempre il contratto, ancora l'odiato, indispensabile contratto che ci ricorda che a fare i matrimoni con la testa e il portafoglio, lasciando fuori le ragioni del cuore, prima o poi ci si perde tutti. Divorzisti esclusi.
di Alessandro Leproux
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