Il giorno dopo la consultazione europea più discussa di sempre, il ribaltone nei numeri all'interno della maggioranza di governo è l'ultimo dei dati a stupire analisti e addetti ai lavori. Che il sorpasso della Lega nei riguardi dei 5 Stelle fosse assodato, ben lo si sapeva da mesi, anche se il 34,3% strappato da Salvini è persino più di quanto lo stesso potesse aspettarsi. Stesso vale per il capitombolo dei grillini, che dall'apice del marzo 2018 hanno perso grosso modo cinque milioni di voti e, al netto dell'astensionismo, si salvano solo al Sud e nel collegio delle Isole, dove restano primo partito italiano. Per il resto è un Caporetto da Roma in su. Una débâcle tanto feroce e inattesa da costringere l'apparato comunicativo pentastellato a blindare gli uomini che hanno seguito lo spoglio dalla Camera e a proibirgli qualsiasi contatto visivo con la stampa per tutta la nottata.
Già da dopo gli exit poll e le prime proiezioni si respirava un umore opposto dalle parti del Carroccio, dove un trionfante Salvini si è fatto immortalare con un cartello che recitava: “Primo partito italiano, grazie”. Un Salvini che ha atteso poco dopo la mezzanotte, quando lo spoglio non lasciava più spazio all'interpretazione, per sedersi di fronte ai cronisti, raggiante, per confermare la fiducia al governo Conte, ma con una serie di puntini sulle i che faranno tutta la differenza del mondo. I risultati del voto stendono un tappeto rosso agli esponenti della Lega, che ora si aspettano cieca obbedienza (o quasi) dalla controparte grillina su tutti quei temi che sono stati il centro dello scontro, o simil tale, durante questa estenuante campagna di ricerca del consenso. La Tav? Si farà. L'autonomia? Pure. La Flat tax è in cima ai punti dell'ordine del giorno. Conferme che arrivano per stessa bocca del segretario leghista che senza soluzione di continuità si è presentato in conferenza stampa brandendo un rosario, ben esposto e sollevato quando ha ringraziato «chi sta lassù e non protegge Salvini o la Lega, ma aiuta l'Italia e l'Europa a ritrovare speranza, orgoglio e radici». Non chiede «mezza poltrona in più in Italia» il ministro degli Interni, che però parla di rappresentanti leghisti che «da domani torneranno a lavoro con più forza». Conferme che giungono anche dalle dichiarazioni del ministro Fontana – «Se c'è spirito di collaborazione per il bene del Paese si va avanti altrimenti no» – e il sottosegretario Rixi, che avverte i 5 S: «Il governo va avanti solo con tanti sì e pochi no». Insomma, la linea è tracciata e la sopravvivenza dell'esecutivo dipenderà soprattutto dalle strategie dei grandi sconfitti, che in nome del Contratto firmato nell'estate scorsa e visto il ritorno del Partito Democratico, rischiano di ritrovarsi svuotati del bacino elettorale conquistato in anni di opposizione ad oltranza. La possibilità di un governo di centrodestra, come uno di destra-destra (senza Forza Italia) resta un richiamo per la Lega, per ora flebile ma udibile. Intanto, come punto di inizio di questa nuova pagina di governo gialloverde, si attende da parte del premier Conte la convocazione di un cdm in cui le due parti tornino a dialogare e in cui Salvini si aspetta l'approvazione del Sicurezza-bis.
Dopo aver disertato l'appuntamento con la stampa, mentre la disfatta era in fase di compimento, il vicepremier Luigi Di Maio si è preso una notte di riflessione per affrontare il verdetto direttamente dal palco del Mise, dove ha per prima cosa fatto i complimenti a Lega e Pd e ammesso, senza grandi giri di parole, l'evidente sconfitta. Per il capo politico grillino – che dice di voler far tesoro di questa batosta – «il governo non subirà alcun scossone e da oggi si riprenderà a lavorare». Per Di Maio «se ci sono delle richieste che vengono dalla Lega, aspetto che si facciano di persona, mi auguro sia finita la stagione in cui ci diciamo le cose a mezzo stampa». Il riferimento andrebbe al caso Siri, soltanto "congelato" dalla Lega che ora punterebbe addirittura a ricoinvolgere l'ex sottosegretario nei tavoli di lavoro del governo. Soltanto uno dei rospi che Di Maio e i suoi dovranno ingoiare nelle prossime ore. Il vicepremier ha comunque garantito che il Movimento sarà «argine per proposte che non stanno nel contratto, tutelandolo da idee che possono essere estreme e favorire l'illegalità», prima di annunciare una fase di necessario rinnovamento per un' «organizzazione più efficace e efficiente», nulla di molto diverso da quanto già auspicato dopo le sconfitte subite nelle amministrative. Dietro a un'ostentata e difficoltosa serenità messa in mostra dal grillino, c'è però una struttura evidentemente in subbuglio e per quanto Di Maio insista nell'affermare che non c'è nessuno che abbia «chiesto le mie dimissioni», riferendosi a Beppe Grillo e Davide Casaleggio, tra i parlamentari e la base scottata, si è sollevato ben più di qualche malumore. Ad interpretare il pensiero dei più scontenti ci ha pensato la "ribelle" Paola Nugnes, già a rischio espulsione dopo aver votato secondo coscienza per l'autorizzazione a procedere nei riguardi del ministro degli Interni per i fatti della nave Diciotti. Per Nugnes «in ogni partito, in ogni azienda, a seguito di un risultato di questo tipo sarebbe necessaria una revisione della struttura dirigenziale», tornando a insistere sulla incompatibilità delle cariche di segretario ed esponente governativo, che «inficia la divisione dei poteri che è alla base della democrazia». Intanto slitterà a mercoledì l'assemblea dei gruppi parlamentari pentastellati, inizialmente prevista per oggi, per dare così modo di essere presenti anche a quegli esponenti ancora impegnati sul territorio al termine della campagna elettorale. Un incontro che, assicurano fonti grilline, non sarà finalizzato a delegittimare il capo politico, quanto a comporre un'analisi del risultato e a mettere le basi per il futuro. Un futuro più che mai incerto in questo 2019, che da anno «bellissimo» si è fatto horribilis per i portatori del cambiamento.
di Alessandro Leproux
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