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Libia: il Pd si spacca; Franceschini media, il risultato è il solito ‘gran casino’ interno…



Un deputato del Pd, colto in una pausa dei lavori d’aula di palazzo Montecitorio, per far capire quale è lo stato dell’arte del ‘dibattito’ in corso nel Pd sul caso ‘Carola’ (la comandante della Sea Watch 3 oggi agli arresti), sul ‘caso Libia’ (votare o non votare le mozioni del governo? Ed è meglio farlo per parti separate? E i porti libici sono, o meno, porti sicuri?) e sul ‘caso migranti’ (accoglierli tutti o solo una parte, i migranti in fuga da guerre e carestie?) , avendo voglia di scherzare e stemperare la tensione, la mette così, facendo un esempio che calza a pennello. “Se domani – racconta - durante la visita di Putin in Italia, un pazzo attentatore cercasse di ucciderlo, magari ferendolo, la Direzione del Pd, convocata con urgenza sul da farsi, si chiederebbe: 1) è il gesto di un pazzo o c’è dietro un disegno criminoso?; 2) va condannato il pazzo da solo o anche la possibile potenza nemica che ne arma la mano?; 3) quali i problemi di ordine europeo e mondiale ci attendono, ora, di fronte a tale folle, insano, gesto? Seguirebbe dibattito lungo diverse ore, poi qualcuno si alzerebbe e chiederebbe: ma la mozione della Direzione e il dispositivo proposto dal Segretario la votiamo in blocco oppure per parti separate? Vorremmo astenerci, o votare contro, come minoranza, ma dovremmo riflettere meglio sul punto. Chiedo aggiornamento della Direzione ad altra data… Nel frattempo, l’attentatore è stato ucciso e Putin già in Russia”.


L’esempio, in effetti, la dice lunga sul fatto che il Pd non solo – tanto per cambiare – “si divide” (un evergreen), ma che sui fondamentali – la politica estera, appunto – non sa proprio che pesci pigliare e, neppure, ‘come’ pigliarli. Enrico Borghi, tenace e coriaceo deputato dem che, ai gialloverdi, fa vedere i sorci (gialli o verdi che siano) quasi tutti i giorni, allarga le braccia sconsolato e dice: “Nel Pci ti insegnavano che una linea sulla politica estera la ‘devi’ avere sempre e in ogni caso. Altrimenti non sei un partito, ma – come diceva De Mita – anime confuse prive di idee”.


In effetti, la discussione andata in scena ieri mattina al gruppo del Pd alla Camera e che è stata aggiornata ad oggi – prima, cioè, che la divisione interna al Pd si materializzi, con un voto difforme tra ‘linea Minniti-Zingaretti’ (dura) e ‘linea Orfini-renziani’ (morbida), è davvero il segno che il Pd può cambiare segretario, ma non perde il suo peggior difetto: dividersi, appunto, in ogni occasione possibile.


Stavolta, la pensosa e confusa ‘discussione’ interna aveva come ‘centro’, appunto, la missione militare italiana in Libia e il voto - che si terrà oggi, alla Camera, ma che si replicherà anche settimana prossima in quel del Senato – che ogni sei mesi il Parlamento deve onorare se vuole rifinanziare e prorogare le missioni militari all’estero.


Dopo una intera giornata, quella di oggi, passata a discutere – citazione colta sempre dell’onorevole Borghi – “del sesso degli angeli, come al concilio di Costantinopoli i padri cristiani mentre la città era assediata dai Turchi che poi la travolsero”, se, come e fino a che punto sostenere le missioni militari italiane compresa – ecco il punto dolente – quella in Libia, il gruppo parlamentare dem ha dato mandato al capogruppo, Graziano Delrio, di ‘inventarsi’ una soluzione (cioè di mediare tra le differenti posizioni) e di portare, sempre al gruppo, ma domani mattina, alle h 9, prima cioè che la spaccatura tra i dem si materializzi nell’aula della Camera, una posizione comune a tutto il Pd.


“Siamo d’accordo sul 99,9%”, assicura Delrio ai cronisti al termine dell'incontro. I punti di contrasto, però, sono tanti e riguardano, in particolare, il ruolo della Guardia costiera di Tripoli nella ricerca e salvataggio dei migranti. Per gli zingarettiani e i gentiloniani possono e devono farlo (i libici), il loro ‘sporco lavoro’ di search and rescue, sulla scorta, appunto, della ‘linea Minniti’, che quegli accordi firmò e sottoscrisse, battezzando i porti libici “porti sicuri”. Per la minoranza – nella fattispecie l’area di Matteo Orfini, i Giovani Turchi, ma anche molti renziani che non vedono l’ora di dare fastidio al ‘manovratore’ di turno (Zingaretti) – invece, no, i libici non possono farlo e la Libia – come dice, oggi, anche il ministro Moavero – “non è” un porto sicuro. Come se ne esce? Alla domanda se sia possibile riformulare la risoluzione che il Pd ha presentato - non firmata da Matteo Orfini e altri 5 deputati - il capogruppo Delrio risponde così: “Tecnicamente non credo sia possibile, ma adesso vediamo... Lasciatemi qualche ora per ragionarci”. Nell’attesa che Delrio ci ragioni e ci rifletta, le ore passano e, soprattutto, le posizioni del Pd al suo interno scoppiano.


In realtà, dalla riunione di gruppo di questa mattina, i dem non sono usciti propriamente usciti con la stessa posizione con cui erano entrati: la pattuglia dei dissidenti, gli anti-Minniti, capeggiata da Matteo Orfini, ha visto crescere le adesioni alla sua linea, specie quelle dei renziani pasdaran (l’area Giachetti-Delrio) tanto da indurre Dario Franceschini a proporre una (faticosa) mediazione.


Il “lodo” proposto dall’ex ministro – ex diccì ed ex ppi ed ex margherita di lungo corso - sfrutta la possibilità – figlia dei tecnicismi parlamentari - del voto per parti separate, già richiesto dal Pd sulla risoluzione di maggioranza (la prima a essere votata e che, quindi, fa decadere di fatto tutte le altre) e prevede che il Pd dica ‘no’ alla premessa politica del governo, dica ‘sì’ alle altre missioni – e fin qui, tutti d’accordo – per poi uscire dall’Aula nel momento in cui si arriverà al dispositivo relativo alla missione in Libia. O, se anch’esso venisse spacchettato, dire sì solo alle parti relative al supporto alle motovedette della Guardia costiera di Tripoli e alla collaborazione sulla gestione del traffico dei migranti. Un no che diventa sì e poi diventa forse. Cose da far venire il mal di testa ai più esperti cronisti di Palazzo.


La ricerca di un’intesa viene affidata, appunto, al capogruppo Delrio, che ha immediatamente verificato la disponibilità di Orfini a convergere su questa posizione. Disponibilità che, ovviamente, c’è stata: chi contestava la posizione ufficiale del partito, sostenuta nell’assemblea di stamattina dal responsabile Esteri della nuova Segreteria, Enzo Amendola, e dalla capogruppo in commissione, Lia Quartapelle, considera un successo politico indurre l’intero gruppo a non votare a favore del rinnovo della missione. E anche le minoranze, con sfumature diverse, ma più vicine alla linea Orfini che a quella Amendola-Quartapelle, sarebbero pronte ad accodarsi: “Per quanto mi riguarda – fa sapere Lorenzo Guerini, co-leader di Base riformista – lavorerò perché si possa trovare una posizione comune di tutto il partito. Senza impuntature da parte di nessuno”.


Lo scoglio, però, è capire cosa ne pensano, del compromesso faticosamente trovato, i sostenitori della continuità con la linea Gentiloni-Minniti, a partire dai due stessi protagonisti di tale linea (assenti, oggi, in assemblea) e da Zingaretti. Il nodo dovrà essere sciolto prima della riunione di stamane, quando oltre ai deputati si riunirà anche il gruppo del Senato con il medesimo ordine del giorno. Ma l’alternativa al “lodo Franceschini” ormai sembra essere solo la spaccatura in Aula: risultato che al Nazareno hanno ovviamente tutto il desiderio di evitare.


Ma come si è arrivati all’ormai inevitabile cambio di rotta? Perché il Pd, sul tema dei rapporti con la Libia, è una polveriera pronta a esplodere. È noto come la linea Minniti fosse già contestata (o quanto meno assai messa in dubbio) da vari esponenti del partito ai tempi dei governi Renzi e Gentiloni (leggi: Orfini e, all’epoca, anche Delrio). Oggi che la maggioranza ha un colore diverso (gialloverde) e che la situazione dall’altra sponda del Mediterraneo è profondamente cambiata, con lo scoppio della guerra civile, è bastato che Orfini e altri accendessero la miccia, firmando la risoluzione trasversale anti-missione, perché i dubbi esplodessero e si trasformassero in aperto dissenso.


Ed è esattamente quello che è avvenuto nella riunione di oggi. Le relazioni iniziali di Amendola e Quartapelle convincono pochi. Solo Piero Fassino (AreaDem) e Andrea De Maria (area Martina) si alzano a prendere la parola a sostegno della linea ufficiale, quella Zingaretti-Minniti. Invece, Orfini, Raciti, Pini, Bruno Bossio, Migliore (tutti firmatari della risoluzione “dissidente”), cui danno man forte la cuperliana Pollastrini, sul fronte sinistro, nonché Ascani e Scalfarotto (giachettiani) e, per Base riformista, Andrea Romano, si attestano su una posizione tardo-blairiana di “interventismo umanitario”: vogliono fare qualcosa in più, non in meno, rispetto a quanto avviene oggi, per garantire il rispetto dei diritti umani in Libia.

La riunione, insomma, si orienta, di fatto, in una direzione sfavorevole per la maggioranza interna di Zingaretti che è ‘padrone’ del partito ma non dei gruppi parlamentari. I vicesegretari, Andrea Orlando e Paola De Micheli, ci sono, ma non intervengono. Guerini, su cui nella maggioranza si faceva affidamento per fare da argine alle minoranze ‘ribelli’, fiuta l’aria e rimane seduto. A quel punto, tocca a un esperto di dinamiche parlamentari come Franceschini di riconoscere l’orientamento che emerge dalla riunione (sfavorevole a Zingaretti) e a proporre di dare mandato a Delrio per trovare una mediazione che impedisca la spaccatura del partito nel voto in Aula, previsto per domani.


La difesa intransigente della linea Minniti viene sacrificata, dunque, sull’altare dell’unità interna. Ufficialmente, l’azione del governo Gentiloni (e di quello Renzi) non viene rinnegata e la nuova posizione è giustificata con lo scoppio della guerra civile e la collocazione dei dem all’opposizione e non più in maggioranza. Nessuno, d’altra parte, si fida di affidare a Salvini, Conte e Moavero la ricerca di un’intesa internazionale per smantellare i lager libici. Il cambio di passo lascia comunque strascichi interni forti che Zingaretti si troverà, suo malgrado, a dover gestire perché oggi si discute di Libia, domani di linea politica. Ma, direbbe Borghi, il Pd, sulla Libia, una linea non ce l’ha.


di Ettore Maria Colombo

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