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Mafia e pizzo sul litorale romano, sgominato il clan Fragalà



"Ci siamo noi altri, loro in questo pezzo di strada qua non ci devono camminare". Siamo a meno di cento chilometri da Roma. Ma il territorio è come un pezzo di Sicilia, Calabria o Campania: è controllato dalla mafia. Queste sono le parole usate da un pezzo di criminalità organizzata siciliana, arcaica, che fa giurare i suoi “picciotti”, che nel 2009 ha piazzato una donna del gruppo (Astrid Fragalà, 30 anni) come presidente (ex) della Confcommercio di Pomezia. Una cosca che, stando ai magistrati, si era trasferita in zona e dettava le sue regole avvalendosi dell’influenza di vecchi nomi della mafia e con minacce, attentati ed estorsioni ai commercianti. Compresa la politica locale, che ora trema. Un vero terrore. Precisamente, nel fazzoletto di terra che corre lungo il litorale di Torvajanica, Pomezia e Tor San Lorenzo e s’infila nei rispettivi entroterra, fino a includere Ardea, terra dello scultore Manzù e del re Turno cantato nell’Eneide di Virgilio. È lo scenario di accuse contenute nell’operazione “Equilibri” portata a termine oggi: trentuno arresti (28 in carcere e 3 ai domiciliari) chiesti dalla Procura distrettuale antimafia di Roma, concessi dal Gip del Tribunale ed eseguiti dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale. Le ipotesi di reato: traffici di droga acquistata in Colombia, passata per la Spagna e venduta sulla costa romana. In più, affari col clan camorristico dei Casalesi, coi mafiosi catanesi delle famiglie Santapaola e Cappello, detenzione di armi ed esplosivi.


NEL 2011 QUEL DUPLICE OMICIDIO A CECCHINA

Secondo le indagini portate avanti dal 2014 al ‘17, ad essere diventato grande è il clan siciliano dei Fragalà, di Catania. Un cognome che nelle passate guerre di mafia non è risultato tra i più famigerati. Ma è comparso più volte nei fatti criminali di Roma e dintorni. Come il duplice omicidio di Cecchina del 2011 ai Castelli romani: due morti e altrettanti feriti. Movente: i giudici hanno stabilito quello della gestione della droga su piazza. Nel 2013 condannati in primo grado condannati gli imputati giudicati esecutori materiali: Sante Fragalà e Ausonia Pisani, figlia di un generale dell’Arma in pensione.


IL BOSS: SE MI TRADISCE SPARO PURE A MIO FIGLIO

Dalle carte firmate dal gip Corrado Cappiello, il capo del gruppo è considerato Alessandro Fragalà, 61 anni, nei periodi di detenzione rimpiazzato dal nipote Salvatore, di vent’anni più giovane. Il progetto del boss è nelle indicazioni che dà al fidato parente: “Raggruppiamo un po’ di gente”. E ci riesce. Nell’ordinanza, le prime presunte estorsioni cominciano nel luglio 2015. Il primo è un negozio di ceramiche a Pomezia, già taglieggiato dal clan dei Casalesi. Ma i Fragalà non ammettono ingerenze: “Pasqualino è un amico... Tony è un amico... però, dove ci siamo noi altri, loro in questo pezzo di strada qua non ci devono camminare...". Il boss Alessandro non fa eccezioni: “Quando mi sento tradito da qualcuno che potrebbe essere anche mio padre o mio figlio, io sparo”. Nello stesso periodo, a Cisterna di Latina viene colpita una falegnameria e ingrosso di mobili. Le richieste del clan sono efficaci: “Con te mi piace parlare una volta sola, no 30 volte… tu lo sai se sono amico o no. Mò mi hai rotto il cazzo mò te vengo a prende pure dentro casa pulcinella". Ancora. Finisce nel libro paga pure Gennaro Mauro Vincenzo, dagli anni '80 nella politica locale di Pomezia, nel 2001 coinvolto in un'inchiesta per corruzione e tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Il politico è nell’indagine "Bigné" insieme ad altri soggetti, compreso Alessandro Fragalà che non fa sconti. Nella misura è scritto che il mafioso l’avrebbe dovuto "ammazzare per quello che hai fatto a livello politico e a livello personale... diciamo che c'è stata, per dirti, questa grazia per te, perché sei lavoratore e non sei di malavita". Tra giugno 2015 e gennaio dell’anno dopo è un ristorante di Ardea bersaglio degli emissari mafiosi: "Ti sei messo la Sicilia contro... ora viene e ti spara in testa...”. Poi la contesa per una pasticceria a Torvajanica, ritenuta “contigua sia a soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta – si legge nell’ordinanza - sia ai fratelli Mascali, elementi di spicco di Cosa nostra catanese. E nuovi altri tentativi di estorsione, con disponibilità di armi, esplosivi e carichi di droga.


IL GRANDE VECCHIOP DON CICCIO, DA BUSCETTA AI TRIASSI DI OSTIA

Don Ciccio è il grande vecchio del clan. Al secolo si chiama Francesco D’Agati, classe 1936, palermitano, tra gli arrestati di oggi per il reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa facente capo al clan Fragalà. Il suo ruolo è di essere la grande anima del gruppo: guidarlo quando c’è da concentrare gli interessi, appianare la strada quando s’incontrano ostacoli con altri clan. La dice tutta un’intercettazione fatta dal Ros e riportata dal Gip. Ha la data del primo luglio 2015. Il luogo è la sede delle cooperative Giano a Roma, in via Luigi Maglione. Parlano Francesco D’Agati e Gaetano Mirabella (ergastolano in semilibertà, legato ai vertici del clan Santapaola). La conversazione avviene prima di un incontro tra loro e alcuni appartenenti della famiglia Senese. Don Ciccio rievoca i propri trascorsi di vita criminale e in particolare il periodo in Lombardia fino al '75: “Minchia – dice - che era bello a Milano… i piccioli non sapevamo dove metterli”. E Mirabella: “Erano bei tempi veramente… c’era rispetto, educazione, dignità, orgoglio". D’Agati compare accanto ai nomi di molti protagonisti della mafia ai tempi dei corleonesi di Toto Riina. Agli inizi degli anni 80 è stato denunciato col boss siciliano Tommaso Buscetta. Nel ’93 è finito nell’ordinanza contro la banda della Magliana firmata d’allora giudice istruttore romano Otello Lupacchini. È comparso nella confisca dei beni al cassiere della banda Enrico Nicoletti. Nel 2011 è stato nominato dal procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara e dal suo aggiunto Antonio Capaldo durante un’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, secondo i quali a Roma c’era solo una guerra tra bande, non tra cosche. E due anni più tardi è stato annotato dalla Squadra mobile di Roma come uomo di collegamento del clan Triassi di Ostia nell’operazione “Alba nuova”.


di Fabio Di Chio


IL TESTO DEL GIURAMENTO MAFIOSO

Di seguito, il testo del giuramento mafioso riportato su un foglio di carta trovato a uno degli affiliati del clan fragalà smantellato oggi da Procura di Roma e Ros dei carabinieri.

"Ne ho passato mura e muraglia a ogni passo ne sceglievo un maglia 3 cavalieri di battaglia dell'anno 1777 dalla Spagna s'imbarcavano e in Sicilia si incontrarono, proseguirono per la Calabria e si riunivano, proseguirono per Napoli e si riunivano e si sparpagliarono. Ma un bel giorno del 1973 sette cavaglieri di mafia si riunivano nella fortezza a Catania fecero un giuramento di sangue e lo depositarono in una damigianella fina e finissima e lo nascosero nella fortezza, guai chi lo scoprirà, da una a sette coltellate alla schiena verrà colpito, battezzo questo locale come lo battezza Salvatore Fragalà, "la Scimmia", se loro lo battezzano con fiori, catene, camicia di forza e ferri, alzo gli occhi al cielo vedo una stella volare con parole d'omertà e battezzato il locale, buon vespa siete conforma su che cosa per passare alla prima e seconda votazione sull'amico... se prima lo conoscevo come giovane onorato da oggi in poi lo conosco come picciotto e mafioso, giura di dividere centesimo per millesimo a questa società e guai se porterà infamità, sarà a discarico della società e a carico del compare a questo punto faccio il giuramento di sangue, bacio la fronte a tutti i componenti di cui sono presenti a tavola ci devono essere un fazzoletto di seta annodato un coltello e l'immaggine di san Michele arcangelo e si fa presente che un nuovo mafioso e tra di noi e si lavora".

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