Matteo Renzi it’s back. Matteo Renzi è tornato. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, perché il ritorno era – ed è – stato ampiamente anticipato sui media. L’ex premier ed ex leader del Pd ha letteralmente ‘riempito’ i giornali di oggi con le anticipazioni del suo nuovo libro, Un'altra strada. Idee per l'Italia di domani, che esce oggi, 14 febbraio, nelle librerie, per i tipi di Marsilio. Oggi, con l’eccezione della Verità, giornale storicamente ostile a Renzi, ma compreso Il Fatto, quotidiano che pure a Renzi le ha cantate, e duramente, non c’era un giornale italiano – di destra, di centro e di sinistra - che non riportasse un brano – ovviamente diversificato, giornale per giornale, dal suo addetto stampa, il valente Marco Agnoletti (per incidens anche capo ufficio stampa del Pd, almeno fino alle primarie) – del suo nuovo libro.
Anche le presentazioni ufficiali della nuova fatica letteraria dell’aedo della Rottamazione si sono sprecate e, in futuro, sprecheranno. Solo nella giornata di ieri, e solo nella città di Roma, sono state ben due, entrambe fatte in pompa magna. La prima si è tenuta all’Associazione della Stampa Estera, alle ore 12, e la seconda al Tempio di Adriano, alle ore 17. Domani, 15 febbraio, Renzi ne terrà un'altra nella sua città, Firenze, al Palazzo dei Congressi, dove i suoi già fanno sapere che verranno ad ascoltarlo «almeno mille persone». Ne seguiranno ben due in provincia di Bologna, poi Mestre, Verona, la provincia di Brescia e Bergamo, infine Milano. E questo solo per dire della prima settimana di lancio. Insomma, una promozione a tappeto che poco ha a che fare con le ‘classiche’ presentazioni di libri e molto con la Politica e il momento storico che il Paese sta vivendo. Del libro, cioè del suo contenuto, è abbastanza inutile dire, o parlare e raccontare. Basta sfogliare, appunto, un qualsiasi giornale di oggi, dove Renzi racconta, di volta in volta, chi gli negò di mettere la fiducia sullo ius soli (Gentiloni), chi non lo difese abbastanza dalle indagini dei servizi segreti (Marco Minniti), chi è “così meschino” da paragonare “rottamazione e populismo” (Enrico Letta), chi gli impedì di dimettersi subito non solo da premier, ma anche da segretario, e lo convinse a tornare a correre per le primarie (tutti i big del partito), chi voleva il dialogo con i 5Stelle (Dario Franceschini e non solo). Insomma, Renzi – fingendo di parlare di ‘futuro’ – si toglie molti sassolini dalle scarpe sul suo, recente, ‘passato’. Non le manda a dire e affonda il coltello nelle contraddizioni di un Pd lacerato e che, in questa fase, sta affrontando le primarie forse più difficili e più a rischio della sua ormai decennale storia.
Solo con un ‘mammasantissima’ e ‘patriarca’ del Pd e, soprattutto, dell’Ulivo, Romano Prodi, non se la prende, Renzi, ma che i due non si amino lo sanno anche i sassi. Non a caso, Prodi ha dato il suo sostanziale endorsment, in vista delle primarie, a Nicola Zingaretti, e cioè al candidato che Renzi e i renziani vedono come Attila a capo degli Unni che arriva a Roma, la conquista e, di fatto, la spiana. Per Zingaretti si sono espressi anche Paolo Gentiloni (prima dello stesso Prodi), Enrico Letta (dopo Prodi) e molti altri big e padri nobili. Manca, all’appello pro-Zinga, solo il beneplacito del primo segretario del Pd, Walter Veltroni, che però presto arriverà, poi il quadro sarà completo. Di fatto, l’intero establishment del Pd (e dell’Ulivo che fu) sta con Zingaretti mentre i renziani hanno l’anima divisa in due: una parte, quella di tradizione più ex-democristiana (Guerini, Giacomelli, Fioroni) si sono schierati con Martina (ma senza crederci troppo) e i renziani pasdaran, aedi e cantori del renzismo che fu, ‘vedove’ dell’uscita di scena del loro vero, unico, leader, appoggiano con entusiasmo la corsa, per sua natura minoritaria, di Roberto Giachetti. Con due eccezioni di peso: Luca Lotti, ex ‘mente’ e ‘braccio’ del renzismo, che ha rotto con il suo (ex) capo e che sta con Martina, e Maria Elena Boschi, che formalmente non si è schierata per nessuno (anche se, alla fine, potrebbe ‘endorsare’ Giachetti) e che, di fatto, sta già molto ‘oltre’. E cioè proprio su quella sponda dove gli ultimi cantori del renzismo che fu (Sandro Gozi e Ivan Scalfarotto che hanno fondato i ‘Comitati civici’, una sorta di partito in nuce) attendono che, finalmente, arrivi anche lui, Matteo Renzi, per rompere definitivamente gli ormeggi e affrontare il ‘mare aperto’.
Costruire, cioè, fuor di metafora, un partito – ‘non’ partito che, sulla scorta di esempi esteri come la Ciudadanos spagnola e l’En Marche! francese si ponga, a livello europeo, come sponda del nuovo liberalismo europeista e, a livello italiano, come un neo-partito liberal e centrista che, magari, con il Pd si potrebbe anche alleare, in un secondo momento, ma per il momento dovrebbe affrontare la sfida delle urne. Per le elezioni europee, ormai, non si fa più in tempo, ma per delle – sempre più probabili – elezioni politiche anticipate, sì, si farebbe molto in tempo. La domanda, però, per tutti loro, resta sempre la stessa: “cosa vuole fare, davvero, Matteo?”. La risposta è dubbia. Incapace di ammettere dubbi ed errori (“a differenza dei comunisti, penso che se uno si deve pentire si pente davanti a un confessore”), che imputa, ora, allo scarso lavoro (sic) sui social (“Non ho investito su una comunicazione social, ho solo lavorato su twitter. E intanto twitter è morto”), Renzi girerà, come si detto, praticamente in tutta l’Italia, battendola in lungo e in largo, piccoli comuni in testa. Una di quelle cose che si fa, di solito, per lanciare un partito – o un movimento politico – non certo un libro. E, non a caso, in un sms che gira tra i suoi amici fiorentini, Renzi scrive: «Dieci anni fa le primarie di Firenze segnarono l'inizio di una storia incredibile. Una storia ricca di successi e di cadute, ma una storia bellissima. Esattamente dieci anni dopo ci ritroviamo nella Sala Rossa del Palazzo dei Congressi. Per un nuovo inizio, per un Un'altra strada». Insomma, Renzi è pronto a uscire al momento opportuno, dal Pd, magari dopo le Europee: «Gli conviene aspettare il risultato delle europee – dice Giachetti – e lì poi decide».
Ma è solo il ‘quando’ si consumerà la rottura ad alimentare incredulità, congetture, ipotesi. Non il ‘cosa’ farà, perché quello, in molti, lo considerano già annunciato e da tempo. E così potrebbe anche arrivare un momento rivelatore in cui la scelta di Marco Minniti di ritirarsi dalle primarie sembrerà meno incomprensibile di come è stata raccontata e la storia degli ultimi mesi del Pd andrà almeno riscritta. Perché la ‘rottura’ con Minniti è avvenuta proprio su questo. Nell’ultima riunione prima dell’annuncio, con Lotti e Guerini, l’ex ministro dell’Interno aveva vincolato la sua decisione a una frase da inserire nel documento della sua (mai nata) mozione: «Il Pd è e resterà sempre casa nostra». I due, Lotti e Guerini, che intimamente la ritenevano giusta, gli spiegarono che non c'erano le condizioni per inserirla. E a quel punto vennero meno anche le condizioni della candidatura di Minniti: è complicato candidarsi se il tuo principale sostenitore pensa di voler fare un’altra cosa. Insomma, quando la storia sarà riscritta si scoprirà che Minniti, che oggi appoggia – ironia della storia – proprio Zingaretti, e non certo Martina, ha rinunciato a correre perché già si prefigurava quello che sarebbe avvenuto. «Renzi non sente ragioni, vuole andarsene dal Pd – spiega uno dei suoi ex colonnelli nel Transatlantico della Camera - Non farà in tempo a lanciare la sua nuova creatura per le elezioni europee, ma presto tardi se ne andrà. E dato che il congresso lo vincerà Zingaretti, avrà la scusa già buona e pronta per farlo. ‘Il Partito è tornato in mano alla Ditta’, dirà, quindi ‘noi’ dobbiamo fare una cosa del tutto nuova».
di Ettore Maria Colombo
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