Il giornalista: «Berlusconi estraneo alle stragi di mafia. La Rai? Rimpiango la lottizzazione»
“C’è più dignità in un killer della mafia che in un dirigente della Rai di oggi? La domanda sale dalla lettura di Nient’altro che la verità, il libro (Marsilio, 19 euro) con cui Michele Santoro si riprende la scena dopo anni di «rassegnata emarginazione». Si tratta di un’inchiesta, un saggio, un’intervista che sconfinano nell’autoanalisi su Cosa Nostra, l’Italia, la televisione e il giornalismo, frutto di una serie di incontri tra l’anchorman e Maurizio Avola, ottanta omicidi sulle spalle, artificiere della bomba che uccise il pm Paolo Borsellino e autore con il boss tuttora latitante Matteo Messina Denaro dell’assassinio del giudice Antonino Scopelliti. «Avola è un freddo, non si fa sconti e non chiede perdono, una sorta di Eichmann della mafia, sa di sangue come io so di Sud, e quando lo vedi avverti il peso di tutti i suoi morti; incontrarlo mi ha fatto capire che dovevo iniziare un percorso di autocritica, il libro si regge sull’alternanza tra la mia e la sua storia».”
«Io come lui, due scappati dalla famiglia d’origine per entrare in un’altra», scrive Santoro nelle prime pagine del libro, destando lo scandalo dei perbenisti. «Mi ha colpito il fatalismo con il quale Avola si racconta, come se uccidere sia il suo destino immutabile» spiega l’autore, «e ho capito che lui è uno scienziato dell’assassinio, ma a muoverlo non è stata la sete di denaro o la disperazione, bensì la ricerca di rispetto e dignità, voleva l’approvazione della Famiglia Santapaola, ambiva a essere considerato il killer numero uno e a conquistare un posto nel mondo. Anche io, tutto quello che ho fatto nel giornalismo, l’ho fatto per ottenere rispetto, per difendere la mia dignità, il mio lavoro; ma ci sono riuscito solo in parte, visto che alcuni miserabili sedicenti dell’antimafia mi trattano da delinquente. Tanto per cambiare, aveva ragione Leonardo Sciascia: alla lunga le strutture emergenziali dell’antimafia si sono rivelate un intralcio al diritto e all’efficienza. Le similitudini con il killer naturalmente finiscono qui, con Santoro che lo immagina a preparare le bombe «con la medesima meticolosità che io mettevo nel costruirei servizi in sala-montaggio, cosa che ormai non si fa più, perché al giornalismo d’inchiesta si preferiscono i talk». Questione di costi sì, ma anche un fatto culturale, perché «oggi i leader politici sono piccoli, i funzionari Rai ancora più piccoli. È tutto più piccolo, in Italia e in Europa, tant’è che arriva la pandemia e il vaccino lo scoprono ovunque tranne che nell’Ue».
Dopo quarant’anni che studi la mafia, cosa hai imparato dall’incontro con Avola?
«La mafia delle bombe, quella pre-Tangentopoli, aveva capito prima dei magistrati e di noi giornalisti, che i partiti erano morti e non controllavano più la televisione. Quando con Maurizio Costanzo, nel settembre del ’91, organizzai la serata Rai-Fininvest per commemorare Libero Grassi, Cosa Nostra avvertì il desiderio di libertà e rivolta che c’era in quel teatro ed emise tre condanne a morte: per me, Maurizio e Pippo Baudo, che invocò misure più dure e meno garantiste».
Perché fu così importante quella serata?
«Perché la mafia capì che Giovanni Falcone stava modificando le leggi per combattere Cosa Nostra. La politica, a sua volta, lo lasciava fare per salvarsi dalla rabbia popolare ed era disposta a cambiare le regole penali che da sempre favorivano i boss, ritenendoli responsabili di omicidi e attentati utilizzando le dichiarazioni dei pentiti».
Su Falcone lei ha cambiato giudizio?
«Lo ritenevo intrappolato nel Palazzo, strumentalizzato. Invece, introducendo con Martelli il principio della rotazione dei collegi giudicanti, che sottrasse a Carnevale il monopolio delle sentenze sui boss, stava condannando a morte se stesso e Scopelliti, al quale irritualmente aveva operato per affidargli il ruolo d’accusa nel maxi-processo a Cosa Nostra. Ma anche altri».
E quali altri?
«Proprio quei politici come Lima che noi ritenevamo formassero ancora un unico blocco con la mafia».
Vicende lontane...
«Fondamentali però per capire che la mafia raramente affiliai politici e comunque non prende ordini da loro, semmai li dà».
E tutte quelle puntate su Berlusconi e la mafia con il figlio del sindaco Ciancimino testimone d’accusa?
«Non ho mai inseguito teoremi personali. E quando ho capito che Ciancimino su alcuni punti nodali mi voleva portare a spasso sul nulla, l’ho mollato».
Però intanto ci hai dato dentro...
«Ma io sono un narratore, non un magistrato, e vuoi mettere la potenza del racconto del figlio di un mafioso di quella grandezza?».
A quale verità giornalistica, se non giudiziaria, sei arrivato?
«Che né Berlusconi né Marcello Dell’Utri abbiano potuto ordinare a Cosa Nostra le stragi. Ma che Cosa Nostra ha valutato politicamente che con l’arrivo al potere del leader di Forza Italia si sarebbero creati equilibri a lei favorevoli. E a quel punto le stragi sono finite».
Però oggi la mafia non c’è, lo dice Avola nel tuo libro...
«Dice che non si sa più cosa sia; e per questo non la si riesce neppure a combattere».
E dov’è?
«Si è messa la cravatta, e una parte di essa si è travestita da antimafia. Oggi basta un click sul computer per spostare ricchezze immense...».
Perché la sua ricostruzione dell’assassinio di Borsellino non è piaciuta alla sinistra?
«Non confonderei la sinistra con i critici del racconto di Avola. La sinistra dibatte, non insulta. Chimi critica sono dei gruppuscoli e persone che, per motivi nobili o meno nobili, hanno fatto del coinvolgimento dei Servizi Segreti nell’attentato la propria ragione di vita. Comunque a dare fastidio è stata la testimonianza di Avola, che racconta che nella strage di via D’Amelio non c’è la mano dello Stato».
Anche i magistrati oggi sono cambiati e non li riconosci più?
«Tutte le istituzioni della Repubblica sono andate in crisi con Tangentopoli. La magistratura, come i partiti, andava riformata, ma subito dopo Tangentopoli irruppe sulla scena Berlusconi».
L’uomo che ha fermato il fotogramma Italia per venticinque anni?
«La seconda Repubblica in realtà non è mai nata. La lotta tra Berlusconi e i suoi oppositori ha cristallizzato il Paese e la magistratura, che sembrava straordinariamente protagonista durante gli anni del Cavaliere, si è disintegrata appena lui è venuto meno».
Ha vinto la battaglia ed è morta con il nemico?
«Senza Berlusconi la magistratura ha perso il proprio profilo corporativo e i giudici hanno cominciato a scannarsi. La realtà fotografata dal “pentito” Palamara, a parte le sue teorie bislacche sui complotti contro Berlusconi, è il punto più basso a cui sono arrivati i giudici dal dopoguerra a oggi».
Sistema è una parola di moda, la usano Palamara e Sallusti e la usano i censori di Fedez.
«Posso dirti cosa era una volta la Rai: capistruttura che erano dei produttori. Oggi abbiamo gente che sceglie dopo aver visionato cassette prodotte all’estero. Ai tempi di una sola rete c’era il varietà il sabato sera ma gli autori si sforzavano di cambiare ogni anno cast: Mina, la Carrà, la Pavone; si cercavano, si creavano nuove star ogni anno. Oggi, un format e un conduttore te li tieni all’infinito. I dirigenti Rai una volta erano, si ritenevano e agivano come responsabili di un prodotto culturale, non come servi delle star televisive, degli impresari e dei partiti».
Ma la Rai è sempre stata politicizzata...
«Io mi sono sempre battuto contro ma magari tornasse quella lottizzazione che nasceva dalle diverse visioni del mondo dell’universo politi co. Raiuno cattolica e per le famiglie, Raidue più laica e giovane, Raitre per dare al popolo comunista uno spazio per esprimersi che non aveva mai avuto: non erano semplici spartizioni di poltrone e potere come oggi. Abbiamo sostituito la visione del mondo con le clientele».
Hai il dente avvelenato perché sei fuori dal sistema?
«No, posso continuare a rimanere fuori. Ce l’ho coni partiti che hanno ucciso la tv pubblica. E mi hanno deluso i grillini: hanno annunciato la rivoluzione e poi hanno aderito al sistema che c’era prima, peggiorandolo. Con il risultato che la Rai non è mai stata così conformista e marginale e l’Italia mai così esposta al colonialismo culturale americano. Netflix, Amazon, ma non esiste una piattaforma dei film europei, abbiamo una produzione provinciale e marginale, che mi ricorda i melodrammi napoletani di Mario Merola».
Ma cosa ti aspettavi che facessero i grillini, non dirmi che pensavi che avessero i mezzi culturali e le capacità manageriali per cambiare qualcosa?
«Questo no, però potevano chiamare qualcuno in grado di aiutarli, anche persone non d’accordo con loro. Certo, il problema è che se metti uno come me a dirigere un tg o una trasmissione, poi non puoi chiamarlo per dirgli cosa deve fare».
Non ti è mai venuto il dubbio di essere stato estromesso quando non eri più funzionale a certi interessi?
«Io non sono mai stato funzionale. La sinistra non ha fatto barricate quando venni cacciato. Paolo Mieli era candidato alla presidenza della Raie gli fu sufficiente dire che avrebbe richiamato me e Biagi perché la sua candidatura saltasse nel silenzio della sinistra, e cosa ha fatto la sinistra? Ha trovato un altro candidato. Si è ricordata di me quando le ho portato un milione di voto contro Berlusconi girando l’Italia come una Madonna Pellegrina per sostenere l’Ulivo, senza neppure i santini da distribuire».
Allora sei arrabbiato con la sinistra?
«Sono arrabbiato con Bersani, che si piegò all’avvento di Mario Monti perché l’Italia non poteva fare debito. Cosa stiamo facendo oggi?». Dicesti che Renzi era l’ultima occasione della sinistra: treno perso? «Non mi ricordo di averlo detto. Dire che Renzi è di sinistra è azzardato. Aveva una visione riformista ma ha confuso le esigenze del Paese con una battaglia personale; e questa è stata una strategia perdente. Senz’altro è il politico più dotato che si è visto negli ultimi tempi, il più dotato e dinamico, ma non ha una visione e ha limiti culturali impressionanti».
Troppo berlusconiano per essere amato dalla sinistra?
«Non è solo una questione di modi, ma anche di idee...».
Ci sono similitudini tra l’antiberlusconismo e l’antisalvinismo?
«Salvini mette la sinistra difronte ai suoi limiti più di quanto non faceva Berlusconi. Silvio potevi attaccarlo sulla giustizia, sui conflitti d’interesse, sulle donne. Salvini lo devi battere sulla politica e per farlo ti serve una visione del mondo che alla sinistra manca».
Letta non ce l’ha?
«La sinistra non può essere rappresentata solo da qualche campagna per i diritti. Ci sono i problema del lavoro, dei giovani e della redistribuzione della ricchezza». Così è, anche se non vi pare; tanto per tornare in Sicilia, dove questa storia è iniziata. «Perché io sono allergico alle divise fin dai tempi del militare», come Avola; solo che il mafioso da soldato ha imparato a usare gli esplosivi e «io a nuotare in una vasca con i pesci rossi».
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