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Minniti in campo e Renzi diserta l'assemblea del PD



Minniti si candiderà oggi, in diretta tv, ma ha già fatto sapere che non intende fare alcun ‘ticket’ con la ex cigiellina Teresa Bellanova, che pure si è detta assai disponibile alla pugna, ma che sarebbe stata interpretata come ‘il cappello’ messo da Renzi, e in modo ferreo, sulla testa (pelata) di Minniti in quanto la Bellanova è una renziana doc e Minniti non vuole ‘padrini’ politici, neanche se si chiamano ‘Matteo’ (ma i loro voti li vuole). Martina dovrebbe candidarsi, ma solo nei prossimi giorni, magari con una bella intervista a Repubblica, il giornale ‘preferito’ e ‘manifesto’ tra i dem. Nicola Zingaretti si è già candidato, e da mesi, come pure saranno della partita Matteo Richetti, Francesco Boccia e Cesare Damiano, oltre al giovane (e polemico) outsider Dario Corallo. E allora a cosa è servita l’Assemblea nazionale del Pd convocata all’Ergife? A poco o a nulla che non riguardasse banali, e formali, adempimenti statutari. In una manciata di ore, dalle 11 del mattino alle 16 del pomeriggio, infatti, l’Assemblea dem si è consumata senza strappi né gesti o parole eclatanti, con l’eccezione di quelle di un paio di giovani peones che hanno sparato ad alzo zero contro il “quartier generale”: “Siete arroganti, liberate il Pd, ritiratevi tutti” il grido di dolore lanciato dalla consigliere regionale emiliana Catia Tarasconi.


Risultato: l’Assemblea (eletta al congresso del 2017 vinta da Renzi su Orlando ed Emiliano) si è sciolta, il presidente Matteo Orfini ha accolto le dimissioni del segretario, Maurizio Martina (la segreteria più breve in dieci anni di vita del Pd) e ha proclamato la costituzione della commissione congressuale che presiederà alle tre fasi congressuali: congresso tra i soli iscritti (prima fase), Convenzione nazionale (con i tre candidati che avranno superato il primo turno) e primarie aperte a iscritti, elettori e simpatizzanti che si terranno, sempre che il calendario non subisca improvvise variazioni, il 3 marzo 2019. Subito dopo si è riunita la Direzione (il ‘parlamentino’ dem composto da 200 membri mentre l’Assemblea ne conta 1000) per i relativi adempimenti statutari. Insomma, “la Guardia è stanca, l’Assemblea è sciolta”, si può dire, parafrasando la storica frase delle Guardie Rosse dei Soviet che sciolsero, per mai più riaprirla, l’Assemblea del Popolo della rivoluzione russa, attribuendo tutti i poteri a Lenin oppure si potrebbe dire, come sibila il cattodem Beppe Fioroni, che “nella Chiesa, l’estrema unzione è la cerimonia più breve, era giusto non perdere altro tempo”. Infreddoliti e annoiati, i delegati riprendono i trolley e sciamano via dall’Ergife mentre i big e i colonnelli restano a discutere e litigare in Direzione. Ad esempio sui ‘tempi’ del congresso: Martina e Zingaretti, ma anche Delrio, li vogliono il più possibile rapidi e anticipati, Renzi e i suoi sono per un percorso più lungo e soft anche perché il congresso anticipato non volevano neanche farlo.


“Notizie” giornalisticamente appetibili, perciò, dall’Assemblea non ne arrivano. Del resto, Matteo Renzi neppure si presenta (“Meglio che se ne stia zitto e fermo, almeno per un po’…”, sospirano i suoi) e Marco Minniti, dopo una breve apparizione, scappa via subito (doveva presentare il suo libro a Milano….). Anche l’ex premier, Paolo Gentiloni, resta giusto il tempo per ascoltare gli interventi dell’olandese ed esponente del Pse, nonché suo candidato alla guida della Commissione Ue alle prossime elezioni europee del maggio 2019, Franz Timmermars (che parla un perfetto italiano e che pare che tifi per la Roma…) e del segretario ormai dimissionario, Martina, che chiede, a tutti, “unità”. Come pure faranno molti altri degli intervenuti dal palco, tra cui Piero Fassino, perché in tanti temono un congresso “lacerante” e “divisivo” come invece sarà.


Presenti in sala, e nei conciliaboli fuori, restano in pochi, tra i big che contano. Tra i candidati certi c’è Nicola Zingaretti che, dopo diversi conciliaboli con Martina, Andrea Orlando e Dario Franceschini, suoi sponsor al congresso, lancia una proposta innovativa: non far pagare i canonici due euro a chi vota alle primarie aperte per permettere “l’ampia partecipazione”. La verità è che ‘Zinga’ e i suoi sono preoccupati e già denunciano le “truppe cammellate” che, specie al Sud (vedi i casi delle ripetute primarie invalidate a Napoli, nel corso degli anni…), affliggono le primarie dem. Inoltre, sempre gli zingarettiani, sono consapevoli che al ‘primo giro’ di corsa, quello tra i soli iscritti, “non vinceremo noi, ma Minniti. Il candidato di Renzi ha in mano l’apparato, vedi De Luca…”. Nervosi sono nervosi, i zingarettiani: sperano che Martina, alla fine, non scenda in campo (“Così diventa un giudizio di Dio tra Renzi e gli anti-Renzi e Minniti sarà costretto a fare campagna elettorale con la Boschi e suo padre…”) e sanno che sarà una battaglia durissima nella quale vogliono fare il pieno di voti “per vincere alle primarie aperte”. Risultato ambizioso, specie se Martina decidesse di candidarsi, perché il segretario dimissionario potrebbe contare sull’apporto di personalità di spicco come Delrio e Orfini che, altrimenti, potrebbero restare agganciati, obtorto collo, a Minniti, anche se altre previsioni dicono che, senza Martina in campo, Delrio punterebbe le sue carte su Richetti e Orfini presenterebbe una candidatura di bandiera, pare una donna. Invece, se Martina si candidasse, toglierebbe voti, specie in Lombardia, a Minniti (e dunque a Renzi) sul lato ‘destro’ e a Zingaretti sul lato ‘sinistro’.


Tutti giochi che si apriranno, e si capiranno, in via definitiva solo da oggi, quando, appunto, Minniti si lancerà nella corsa per la leadership del Pd in tv, ospite della trasmissione In mezz’ora condotta da Lucia Annunziata su Rai3. Succederà tutto, cioè, come al solito, sui media, e non negli organi statutari. Minniti vuole essere, e sarà, conoscendolo, il candidato di se stesso e non ‘di Renzi’ (lo dimostra il suo rifiuto al ticket con Bellanova, sponsor l’ex premier), ma non può fare a meno dell’ex segretario e dei suoi supporter, se vuole vincere. Non a caso, nel pomeriggio parte l’appello di 500 sindaci che gli chiedono di candidarsi, lanciato, via Twitter, dal renziano Matteo Ricci, sindaco di Pesaro.

Ma, tra i renziani, ‘cova’ ben altro, e cioè il sogno della tanto evocata scissione. Infatti, ove vincesse Zingaretti (sempre Fioroni lo chiama “Bersani 4.0” che “vuole riaprire la Ditta, riprendendo gli scissionisti di Leu per fare un neo Pci”), renziani (e lo stesso Renzi) non avrebbero dubbi: meglio uscire, subito, dal Pd ‘ridotto’ a un post-Pci e magari allearsi con esso alle Politiche che dare battaglia restando dentro il partito. Ma anche se vincesse Minniti, che renziano non lo è mai stato (anzi, tutt’altro), i tormenti e i dubbi dei renziani su un ‘contenitore’ (il Pd) che non riconoscono più resterebbero intatti. Il loro sogno resta quello di un partito personale con Renzi alla guida, oltre che liberal-democratico-europeista, e anche la possibile vittoria di Minniti alle primarie potrebbe non bastare per far cambiare loro idea mentre con quella di Zingaretti il dado sarebbe già tratto. Si vedrà. Certo è che, nel Pd, il ‘Grande Gioco’ delle primarie, da oggi, è iniziato.


di Ettore Maria Colombo

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