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Monica Gallo (Garante detenuti Torino): “Agire perché non ci siano altri Antonio Raddi”


Il carcere delle Vallette di Torino è al centro di un’inchiesta per un caso risalente al 30 dicembre 2019, data in cui il detenuto 28enne Antonio Raddi morì a causa di una infezione polmonare dopo aver perso 25 chili. L’uomo diceva di non riuscire a mangiare, ma gli operatori del carcere erano convinti che la sua fosse soltanto una simulazione. Il caso è approdato in tribunale e si discuterà la richiesta dei familiari di non archiviare l’inchiesta. Spraynews ha intervistato in esclusiva sul tema la dott.ssa Monica Gallo, Garante dei Diritti dei detenuti di Torino, che aveva segnalato il caso alla direzione delle Vallette nove volte, dall’agosto del 2019 senza mai ricevere una risposta.


Dottoressa, ci può rilasciare una dichiarazione su quanto sta avvenendo riguardo al caso Raddi?


Certo. Io partirei dal fatto che tutti si stupiscono dal fatto che si sono attesi 2 anni per rivolgerci ai media, visto che nulla ci vietava di fare subito una conferenza stampa, come abbiamo fatto adesso secondo la volontà dei genitori. Il motivo è che noi, comportandoci correttamente, non abbiamo voluto interferire creando un'onda mediatica con le indagini che il Pm ha svolto, delle quali abbiamo atteso gli esiti; dal momento in cui è però arrivata una richiesta di archiviazione la famiglia ha fatto ricorso e, d'accordo con l’avvocato, hanno chiesto a me di denunciare la situazione pubblicamente, visto anche che sono stata persona vicinissima ad Antonio ed ai suoi genitori.

A tal proposito, il grave problema è che anche se le persone detenute fragili di salute come era Antonio hanno dei medici di riferimento, questi sanitari non hanno un colloquio coi loro genitori, quindi il Garante si ritrova a ricoprire un ruolo complicato, perché pur non avendo esperienza medica deve intercettare la sofferenza spesso ignorata del detenuto, insistere con la sanità penitenziaria perché tuteli il suo diritto alla salute e alle cure, e anche fare ponte con i familiari; questo secondo me è un gravissimo problema perché in qualunque ospedale tu hai un caro ammalato, se vai a colloquio coi medici ti dicono che cosa sta accadendo, mentre in carcere non è così. Immaginate di avere un figlio in un Istituto penitenziario, di vederlo una volta a settimana o ogni due settimane e ogni volta sempre peggio, ma di non riuscire ad ottenere informazioni precise sulla sua salute.

Tra noi è nato un legame forte anche per questa ragione, perché ero l’unica che portava informazioni e purtroppo non è neanche servito, come si è visto, perché ovviamente il problema della tossicodipendenza in carcere è che il detenuto che sta male e lo segnala viene considerato un “tossico” lamentoso perché in astinenza che quindi va ascoltato a metà e va visto a metà.


Lei che la ha seguita dall'inizio, ci puoi riassumere la storia di Antonio?


Antonio è entrato il 4 aprile 2019, e l’abbiamo intercettato inizialmente per una questione burocratica, perché lui aveva fatto richiesta di parlare con noi ed era un ragazzo brillante, sorridente, e che stava bene; dopo poco invece le sue richieste di colloquio erano prevalentemente legate ad una condizione di salute che si sentiva aggravare; inizialmente io le avevo interpretate come una grossa fatica di adattamento al carcere, anche perché di conseguenza ad una sua evasione dalla comunità la sua pena era ritornata all’inizio, e lui lo aveva vissuto come un fallimento suo e nei confronti della famiglia ed aveva cominciato a vivere la carcerazione male.

Ha avuto anche un episodio di isolamento per una sospetta scabbia che poi non era, 15 giorni col blindo chiuso; in seguito, quando veniva a colloquio, ha iniziato a manifestare dei malesseri che, a partire da agosto, si sono cominciati a vedere anche fisicamente, perché dimagriva molto e diceva che non riusciva ad ingoiare assolutamente nulla: poi lentamente non è più venuto sulle sue gambe ma è venuto su una sedia a rotelle, il suo colore della pelle ha smesso di essere naturale, come il colore delle labbra, faceva fatica a parlare, ed a tutti questi colloqui seguivano delle mie note, di preoccupazione, e di stimolo alla tutela al diritto alla salute di questo ragazzo, in conseguenza alle quali venivo rassicurata che era monitorato e anzi mi si diceva che il suo era un atteggiamento strumentale per ottenere dei benefici; in ultimo lui si è messo a dirmi “Mi faccia uscire, mi faccia uscire che io mi sento morire qua dentro”, quindi io nelle ultime settimane che hanno preceduto il ricovero quotidianamente scrivevo, andavo a parlare con il direttore, parlavo con gli educatori, parlavo con il direttore sanitario, insomma ho veramente fatto davvero tutti i passaggi istituzionali possibili, al Magistrato, al Provveditore… ma purtroppo non è nelle competenze dei Garanti firmare un differimento pena o una misura alternativa.

Io però, la domanda che mi pongo è questa: chi realmente si è mosso dai propri uffici, ed è andato a parlare ed a vedere questo ragazzo come stava? E purtroppo a questo non ho risposta.


Alla luce di questa storia, quale è il suo appello alle Istituzioni perché non si ripetano più episodi di questo genere?


Secondo me ci vuole un monitoraggio diverso su questi ragazzi, Antonio aveva una famiglia, ma ci sono tanti ragazzi fantasma con le stesse identiche problematiche, che non hanno nessuno, che sono magari stranieri, che non sanno nemmeno chi è il Garante dei detenuti, che, visto il sovraccarico degli educatori, non incontrano gli educatori o li incontrano poco. Anche gli operatori spesso hanno ormai uno sguardo assuefatto: il DAP fa delle Commissioni ispettive nel momento che capitano le tragedie, ma servirebbe che queste Commissioni ispettive fossero di routine alla salvaguardia della salute, con un’equipe di medici esterni, che possano vedere con altri occhi, perché, comunque se no resta la mentalità che dicevo di considerare i detenuti che dicono di stare male dei “tossicodipendenti rompicoglioni”, che vogliono magari la compressa in più per dormire.

La persona con una stessa patologia o con le stesse problematiche all’esterno è in una situazione diversa, perché l’approccio sanitario è diverso, perché è comunque una persona che ha relazioni, che ha una famiglia, è una persona che non vive una privazione della libertà. La privazione della libertà rende di per sé il soggetto vulnerabile per cui la sua situazione va valutata con particolare attenzione.


Di Umberto Baccolo.

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