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Napoli, donna denuncia dopo anni di violenze Parla il Capitano della Polizia Locale Giuseppe Cortese



Il coraggio di dire basta, di andare oltre, di alzare la testa. La forza di farla finita con un capitolo doloroso della propria vita e gettare le basi per cominciarne una nuova. Il dramma della violenza di genere e in generale di quella ai danni delle fasce più deboli della società resta un male altamente e troppo radicato in un Paese che ancora deve fare molti passi nella continua lotta per la civiltà e per un'eguaglianza che riconosca e tuteli i diritti di tutti. Quella delle donne vittime di crudeltà, percosse, intimidazioni e minacce, sia fisiche che psicologiche, è un cancro che colpisce e talvolta addirittura uccide nel silenzio, nell'indifferenza di troppi. Una condizione umiliante, quella di chi è costretto a nascondere una verità tanto brutale e meschina per paura di ritorsioni da parte di chi aggredisce e non ha altro modo che la barbarie per far valere le proprie ragioni, sempre irragionevoli. La paura di mostrarsi deboli, di riconoscere l'errore di aver affidato il proprio futuro, ed essersi affidati, alla persona sbagliata; la vergogna nel dover pubblicamente ammettere di essere vittima della follia omicida che assale individui altamente problematici e pericolosi.


Ce l'ha fatta, dopo anni di violenze e crimini subiti, una donna nel napoletano. Trentacinque anni e tre figli, una famiglia come tante, non fosse per i lividi impressi sul corpo e nella mente. Anni di soprusi celati nella paura e nella speranza di una violenza che non ha però fine. Poi le botte che arrivano a renderla quasi sorda, a causa della rottura del timpano e le resistenze che cedono: diventa un fiume in piena la vittima, assistita dai medici specializzati del presidio ospedaliero Cardarelli e dagli uomini della Polizia Locale appartenenti all'Unità operativa per la tutela delle emergenze sociali e dei minori che hanno raccolto l'agghiacciante testimonianza e fatto partire l'iter procedurale per la messa in sicurezza della donna e dei suoi tre figli, ora ospitati in una struttura specializzata, rimasta ovviamente segreta e dato via alla denuncia, presso la Magistratura, del marito violento, per ora accusato di lesioni personali e maltrattamento in famiglia.


Abbiamo contattato il capitano del Corpo della Polizia Municipale di Napoli Giuseppe Cortese per approfondire la questione e trarre degli spunti su un tema purtroppo sempre d'attualità.



Capitano Cortese, cosa ha determinato l'intervento della vostra unità nella struttura ospedaliera Cardarelli dove la donna era assistita?


«Tra noi, Polizia Locale e il presidio ospedaliero esiste un rapporto sinergico di reciproca collaborazione. Già altre volte eravamo stati contattati per segnalazioni analoghe. All'interno della struttura ospedaliera c'è un ufficio dedicato per le donne vittime di violenza, un cosiddetto punto rosa, dove le donne possono trovare assistenza specializzata ed essere aiutate nel primo passo, che è quello di denunciare l'accaduto»


La segnalazione è quindi partita grazie a questo strumento?


«Ieri il punto rosa non era attivo, ma siamo comunque stati allertati dal personale medico sanitario con cui molto spesso collaboriamo. Naturalmente senza prima la volontà di denunciare da parte della vittima non c'è alcuna possibilità di intervento. Però una volta partita la procedura non è più possibile tornare indietro se non in fase processuale davanti al giudice»


L'unità operativa per la tutela delle emergenze sociali e dei minori è composta da personale di polizia o anche da professionisti psicologi?


«È un reparto costituito esclusivamente da agenti di polizia giudiziaria, sebbene con una formazione specializzata e dotata degli strumenti per la tutela delle fasce deboli e dei minori. Lavoriamo in stretta sinergia con la procura dei minori e con la sezione della Procura ordinaria dedicata alle fasce deboli»


L'uomo, in seguito alla denuncia, si trova in stato di fermo?


«Assolutamente no, è stato solamente denunciato ma il magistrato, da noi preventivamente informato dei fatti, non ha evidentemente riscontrato gli estremi per una custodia cautelare che inducano uno stato di fermo o di arresto»


Quali sono dunque gli strumenti per garantire l'incolumità della donna che sporge denuncia se il soggetto violento si trova in stato di libertà?


«La donna, assieme ai tre figli, è stata condotta in una casa protetta e la cui locazione è segreta persino per la Procura che deve indagare. Nella struttura che la ospiterà è presente personale altamente qualificato sotto il profilo psicologico che potrà assistere lei e i suoi figli per ogni necessità. Anche sotto il profilo legale e della sicurezza la tutela sarà il primo punto su cui opererà il personale»


Questa è una soluzione a titolo temporaneo, finché la giustizia non farà il suo corso?


«Non esiste un arco di tempo definito, bisognerà attendere lo svolgimento del processo a carico del soggetto violento per determinare poi gli strumenti in favore della donna e dei figli»


Qualora l'uomo non finisse effettivamente in carcere, come potrà essere garantita la sicurezza degli altri membri della famiglia?


«Questa è una decisione la cui competenza spetta unicamente al giudice. Ci sono tutta una serie di strumenti che possono essere adottati, di natura preventiva o repressiva»


Data la sua vasta esperienza, saprebbe dire se negli ultimi anni sono aumentate o meno le denunce da parte delle donne vittime di violenza?


«Fortunatamente, se di fortuna si può parlare in questi casi, stanno aumentando le segnalazioni che rompono il silenzio. Ciò è possibile grazie alla creazione di specifiche strutture che possano supportare e non abbandonare alla solitudine i soggetti che poi denunciano. Immagini se una donna dopo essere arrivata in ospedale e aver denunciato certi accadimenti dovesse tornare a casa dove risiede il soggetto violento, una cosa impensabile. Oggi per fortuna possono trovare percorsi dedicati in ospedale, personale qualificato e specializzato nelle forze di polizia e assistenti sociali che possano favorire e tutelare la loro incolumità per spingerle ad abbandonare i luoghi della violenza in sicurezza»


Gli strumenti a disposizione per favorire le denunce da parte delle vittime sono secondo lei sufficienti o occorre implementarli ulteriormente?


«Sicuramente il percorso intrapreso è quello giusto, ma non bisogna abbassare la guardia e continuare a rafforzare e migliorare sempre più tali strumenti, anche e soprattutto attraverso la formazioni di agenti di polizia qualificati e capaci di percepire segnali che molto spesso non sono espliciti. Anche da parte dei servizi sociali deve rimanere l'apertura per adibire strutture dove collocare le vittime e i presidi ospedalieri devono proseguire nell'opera di segnalazione di questi casi, attraverso la lettura di quei campanelli d'allarme che vanno maggiormente pubblicizzati così da essere immediatamente riconoscibili»


Per quanto riguarda la prevenzione e la diffusione di una cultura del rispetto, ci sono attività già predisposte da parte della vostra unità?


«Certamente siamo attivi anche su questo fronte. Per esempio svolgiamo attività di informazione pedagogica nelle scuole che ci coinvolgono, attività fondamentalmente culturali per accrescere nei giovani una cultura che sia basata sul rispetto reciproco e sulla non violenza nei rapporti umani»



di Alessandro Leproux

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