Tanto tuonò che piovve, dicevano le nostre nonne. “Tanto rumore per nulla” avrebbe detto, invece, il drammaturgo inglese William Shakespeare. Quando i giornali titolano “Pd, resa dei conti”, nel Pd – puntualmente – la ‘resa dei conti’ non avviene mai. Va così da almeno dieci anni, del resto, cioè dalla fondazione del partito stesso, non si capisce perché le cose sarebbero dovute andare diversamente anche stavolta. E così, stabilito che – nella lunga e decennale della storia del partito fondato da Walter Veltroni – gli unici che “hanno avuto le palle di fare una scissione”, come ricorda Pier Luigi Bersani nell’emeroteca di Montecitorio, “siamo stati noi” (cioè il gruppo dirigente che poi fondò Mdp e, infine, confluì in LeU, a prescindere dagli scarsi risultati elettorali arrisi, o meglio ‘non’ arrisi, al piccolo partitino), almeno per ora nessuna scissione, dentro il Pd, è alle porte.
“Tanto rumor per nulla”: nessuna scissione alle porte…
Tantomeno, appunto, quella dei renziani. Dopo giorni passati a sparare, con modalità maoista, ad alzo zero contro “il quartier generale” (quello di Zingaretti, ovviamente), si sono chetati. Prova ne sia che, alla fine della Direzione nazionale di ieri, tenuta al Nazareno, non si è registrato nessun voto contrario alla relazione del Segretario (tranne un astenuto, Ivan Scalfarotto). La minoranza dei pasdaran renziani duri e puri (l’area Giachetti-Ascani) si è limitata, come segno di protesta minimal, a non partecipare al voto.
Invece, la minoranza di “Base Riformista”, capitanata da Luca Lotti (ieri assente, dati i noti guai che lo vedono coinvolto) e da Lorenzo Guerini - oggi presidente del Copasir e sempre più ‘capo-corrente’ di un’area che rappresenta, ancora oggi, il grosso delle truppe parlamentari e cioè più della metà degli attuali deputati e senatori dem – si è espressa a favore. Certo, “Base riformista”, dopo giorni passati tra i tormenti, a causa del ‘caso Lotti’, sembrava essere ‘rinculata’ sulle posizioni dei pasdaran del renzismo, ma ieri ha – proprio grazie all’intervento di Guerini – ritrovato “ritmo e vitalità”, come diceva la vecchia canzone.
La relazione ‘inclusiva’ e da scuola ex Pci di Zingaretti
Meglio partire dalla relazione introduttiva del segretario. Zingaretti, da buon ex comunista (ex figiciotto, per la precisione), la prende larga, dal lato della politica nazionale e internazionale. “Salvini – dice - è una forma originale, europea, e per alcuni versi peggiore del peronismo. Crea disuguaglianza sociale. Il nostro primo compito è far emergere la contraddizione del nucleo popolare e il carattere padronale delle scelte e dei temi di Salvini”.
“Non affossiamo i primi segnali di ripresa del Pd. L’azione deve essere rivolta tutta all’esterno, dove c’è una situazione di pericolo” per l’ascesa della destra è l’accorato appello. “Sento su di me tutta la responsabilità di ricreare un clima di fiducia e per combattere le nostre battaglie. Non faccio appelli ai buoni sentimenti tra noi, ma ragioniamo sulla linea politica per un terreno comune di iniziativa”. Insomma, un ‘non facciamoci del male’ in stile morettiano.
L’appello ai liberali e ai delusi M5S: “battete un colpo”
Il leader del Pd lancia un appello a fare fronte comune contro l’ascesa della Lega. Un invito rivolto ai liberali, ma anche agli elettori del Movimento Cinque Stelle: “Se le forze liberali trovano insopportabile stare nello spazio di Salvini - dice - è il momento di battere un colpo. A noi spetta il compito di essere calamita di un processo di costruzione di un campo largo ma non spetta a noi dare patenti. Se tanti elettori del M5s che hanno sostenuto liste civiche decidono di proporsi anche a loro dico ‘noi siamo qui’, disponibili ad aprire un nuovo cantiere”. Parole che fanno fremere di malumore i renziani, ma solo sottotraccia, tanto che, come vedremo, solo Marcucci rifiuta la proposta.
‘Zinga’, sulla Segreteria, rivendica le scelte compiute
Il segretario risponde, ovviamente, anche agli attacchi dei renziani sulla composizione del suo nuovo staff politico: “Sulla Segreteria che abbiamo varato non c’è stata alcuna volontà di esclusione. Sarebbe stato in contraddizione con la volontà di inclusione. Abbiamo valutato collegialmente che non esistevano le condizioni politiche per un pieno coinvolgimento delle minoranze congressuali. Bisognava scegliere e ho scelto. E’ una squadra aperta, al servizio di tutti”. Dopo, però,, lascia intendere che nuove “scelte”, ad esempio sui Dipartimenti di lavoro, ancora da nominare, potranno essere fatte, ‘allargando’ i nomi alle minoranze.
Il voto anticipato non c’è, i ballottaggi sono una ferita
Zingaretti, in realtà, ripone ancora qualche speranza nel voto anticipato – sempre che Salvini voglia fargli il ‘regalo’ che gli permetterebbe di ‘spoilerare’ i gruppi del Pd - ma prende atto anche che l’ipotesi delle urne, almeno per ora, si allontana, e non si avvicina. La ‘pulizia etnica’ dei renziani (Renzi, nel 2018, fece la stessa cosa) è rinviata a data da destinarsi, almeno per ora. Ma, consapevole che deve governare una nave “col nocchiero” (lui medesimo), ma “in gran tempesta” (vedi alla voce: Luca Lotti-Csm), Zingaretti si prepara alla “lunga marcia”, esercizio sempre pericolo per un segretario del Pd oggi come del Pci ieri.
Prossima tappa, se non ci saranno le elezioni politiche, saranno le prossime regionali in Calabria, Emilia-Romagna e Umbria: tre voti a alto rischio, a guardare i risultati delle ultime elezioni amministrative, con l’Umbria e la Calabria, di fatto, già per perse, e l’Emilia da difendere col coltello.
Il grido del Segretario: “basta con il correntismo!”
Zingaretti, onestamente, ammette le “grandi ferite” dei ballottaggi – brucia l’ultima catastrofe, il voto sardo – pur accanto a “grandi successi”, e chiede al suo partito di essere “sempre pronto” al voto. Ma, aggiunge, “siamo di fronte a una possibile e duratura egemonia di forze illiberali. Anche per questo motivo sento su di me tutta la responsabilità”. “Non possiamo affossare i primi segnali di ripresa” con “le discussione interne al gruppo dirigente” continua a ripetere. E, proprio per evitare l’accusa di avallare il correntismo, il segretario fa sapere che non accetterà gli inviti alle riunioni delle diverse aree. In particolare, tanto per dire della prima, proprio quella di “Base Riformista” che si terrà, il 5/7 luglio a Montecatini Terme e che, nell’assenza - già prevista - di Matteo Renzi, ma anche di quella – prevedibile – di Lotti, vedrà proprio in Guerini l’unico e solo ‘mattatore’. La sola iniziativa cui Zingaretti parteciperà è la prima, grande, assemblea nazionale del partito che si terrà il 13 luglio. Guarda caso, il giorno dopo in cui i Comitati civici nati sotto l’egida di Matteo Renzi si incontreranno a Milano per la loro prima assise, ma di certo si tratta di un puro ‘caso’.
Un ‘colpetto’, però, Zinga lo dà anche a Carlo Calenda
Ma il segretario recapita anche un messaggio in bottiglia per Carlo Calenda e le sue ‘smanie’ di protagonismo: “Sento parlare di nuove ipotesi di nuovi soggetti. Non ci sottraiamo, ma stiamo attenti che non si tratti di una affiliazione di gruppi dirigenti che si dividono un consenso che già c’è. Per tutti c’è il problema del radicamento e di non dividere il campo dell’unica forza democratica che combatte”, cioè il Pd. Poi aggiunge: “Io sono per non abbandonare la vocazione maggioritaria, non nel senso di una autoreferenzialità, ma per avanzare una proposta e senza porci il problema su a chi dobbiamo parlare. Ai moderati? A chi non vota? Ai delusi del M5s? Alla sinistra dispersa? Noi dobbiamo parlare a tutti” dice, ecumenico.
La minoranza interna ‘giura’: “Mai chiesto posti”…
Di fatto, davanti all’eterno problema della rissosità interna, il segretario - accusato dai renziani, a sprezzo del pericolo, di “bullismo correntizio” - offre una tregua alla minoranza “realista” (quella di Guerini e Lotti, appunto) e quantomeno una coabitazione pacifica alla minoranza ancora legata perinde ac cadaver all’oggi senatore semplice di Scandicci. In realtà, una ‘trattativa’, sulla composizione della Segreteria, c’è stata, ma si è svolta molto tempo fa, non in questi giorni: Guerini e Lotti non avevano chiesto posti – così assicurano nelle loro ricostruzioni post quem – in Segreteria, ma la ‘salvaguardia’ degli attuali capigruppo di Camera (Delrio) e, soprattutto, Senato (Marcucci), che Zingaretti aveva ‘puntato’ e che voleva, perciò, cambiare. Ottenuta quella rassicurazione, Base riformista sostiene di “non avere chiesto posti”, figurarsi l’area Giachetti. In ogni caso, ‘Zinga’ ha costruito la nuova Segreteria a sua immagine e somiglianza e, insomma, cosa fatta, capo ha.
Guerini, con il sorriso da ex dc, tira fuori la cattiveria…
Prima della Direzione, e non a caso, Zingaretti incontra Guerini, ormai unico vero e saldo riferimento dell’area dopo l’autosospensione di Luca Lotti, e Guerini è poi tra i primi a intervenire, subito dopo il segretario. Nel suo intervento, “in perfetto stile democristiano”, ridacchia un suo amico, “di quei diccì che, con gentilezza, mostravano i denti”, Guerini tira fuori una insospettabile vis polemica: sferra un colpo (visibile) a Calenda - che nella sua irrefrenabile vis dichiaratoria era arrivato a vantare come “personali” le duecentottantamila preferenze raccolte nel Nordest – dicendo che “Calenda è stato un protagonista, ma gran parte dei suoi voti sono del Pd”, ma soprattutto ne tira alcuni (meno visibili, ma molto duri) a Gentiloni e a Zanda, accusati, senza citarli, di fare gli “apprendisti stregoni, alchimisti che vogliono creare partitini in vitro”. Certo è che Guerini accetta la ‘tregua’, neppure armata, che offre alla minoranza Zingaretti e porge un ramoscello d’ulivo, pur se contornato da diverse spine: “La parola che deve uscire da questa Direzione è che il Pd non deve smarrire la sua vocazione maggioritaria. La tentazione di assegnare dei ruoli, tipo ‘tu fai la sinistra, tu fai il centro’, è sbagliata”. La conclusione di Guerini è, comunque, un volemose bene (“Colgo l’invito di Zingaretti alla responsabilità comune”) che viene, ovviamente, subito apprezzata e sottolineata dagli interventi di influenti sostenitori del segretario, da Goffredo Bettini a Gianni Cuperlo, e persino da Francesco Boccia, mentre il deputato emiliano Gianluca Benamati – passato dall’area Renzi a quella Zingaretti, cui ha fatto vincere il congresso in Emilia – loda il “modello Bologna”, un Pd “radicato nei territori e che allarga ad altri soggetti”.
I renziani ‘pasdaran’ restano silenti, ma sospettosi
Diverso il discorso per la corrente “Sempre avanti”. Ai suoi, lo stesso Renzi (assente, ma che avrebbe, addirittura, svolto il ruolo del ‘paciere’ che placa i bollenti spiriti dei suoi) aveva consigliato di non attaccare troppo il segretario: la vicenda di Lotti, che Zingaretti ringrazia per essersi autosospeso, non ha di certo rafforzato l’area che lo ha difeso a spada tratta. Non è un caso che il frontman Roberto Giachetti non parla per evitare di ‘perdere la brocca’. Luciano Nobili, però, interviene – e con durezza - sulla composizione della Segreteria a cui i pasdaran del renzismo non partecipano “per scelta”: “Dare la delega alle riforme istituzionali a una persona che ha votato no al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016” (il riferimento è al deputato Andrea Giorgis, già cuperliano e orlandiano) “è una ferita molto grave”, “la più inaccettabile forma di fuoco amico”, attacca Nobili. Invece, Andrea Marcucci, presidente dei senatori dem, accetta anche lui il ramoscello d’ulivo: “Tra le file di Zingaretti è sembrato che qualcuno allentasse il vincolo alla vocazione maggioritaria. Noi abbiamo garantito rispetto assoluto all’esito delle primarie. Fa bene sentire che Zingaretti ribadisca la centralità della vocazione maggioritaria”. Poi, però, Marcucci dice: “M5S e Lega sono entrambi pericolosi”.
Conclusione: Zingaretti apre ai ‘delusi’ M5S e al centro
In ogni caso, a ribadire la disponibilità al dialogo verso l’M5S di Zingaretti (“Noi siamo qui, disponibili ad aprire un cantiere”) , arriva l’appello di Goffredo Bettini, suo antico mentore: “Se, di fronte al pericolo di questa nuova destra, cresceranno esperienze civiche, moderate e liberali, o se si spaccherà l’M5S e una parte avrà il coraggio di scegliere il campo democratico, tutto ciò ben venga. Ma si faccia presto. Ognuno si assuma le sue responsabilità”.
Quanto alle “forze di centro”, eterno dilemma della politica italiana, anche qui il segretario ha chiesto, appunto, che “questo è il momento di battere un colpo”. Insomma, se un soggetto di centro dovrà nascere, non sarà da una scissione del Pd o almeno non con la sua ‘benedizione’, come aveva capito e detto Calenda, che voleva creare, per poi subito ricredersi, un ‘partito’ con la benedizione del Pd. Un ‘partito dei contadini’, nella testa di Zingaretti, non c’è.
di Ettore Maria Colombo
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