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Omicidi camuffati da suicidi: “Five”, il libro del criminologo Carmelo Lavorino



Ognuno dei cinque casi raccontati da Carmelo Lavorino in “Five – Cinque omicidi camuffati da suicidi” è il frutto di un lavoro certosino di lettura, interpretazione e confutazione di migliaia di pagina processuali. Una montagna di carte, di verbali, di foto che l’autore del libro, edito da Edizioni Ponte Sisto, ha studiato e ristudiato con il suo staff nel corso delle indagini in cui è stato consulente di parte per i familiari delle vittime e che poi ha condensato in un volume che si legge come fosse un romanzo. Lavorino, uno che ti racconta che ha avuto la fortuna di conoscere e lavorare con il number one degli investigatori italiani, il mitico Tom Ponzi, ci prende per mano e ci accompagna sulla scena del crimine, mostrandoci le tracce, le incongruenze, gli errori investigativi che hanno prodotto il fallimento delle indagini. Sfogliando il libro la mente va a Scherlock Holmes, ma anche a Edgar Allan Poe e ai suoi “I delitti della Rue Morgue”. E, ci confessa l’autore in questa intervista, che lui, ragazzino dodicenne, cominciò ad appassionarsi alla criminologia proprio «divorando» i racconti dello scrittore americano, universalmente riconosciuto come il padre del poliziesco e della letteratura dell’orrore. Il criminologo ha nella sua carriera seguito circa 200 cold cases, e parliamo di quei delitti che hanno catturato per mesi l’attenzione dei media: dal mostro di Firenze a via Poma, dal delitto di Cogne a quello del piccolo Tommaso Onofri, dal delitto dell’Olgiata a quello di Arce (l'omicidio della diciottenne Serena Mollicone). I cinque casi analizzati in “Five” hanno un filo che li lega: si tratta di omicidi e non suicidi, come erano stati, invece, frettolosamente archiviati. Uomini e donne morti ammazzati e «ingiustamente tacciati di “atto suicidario”».


I loro nomi sono Salvatore Incorvaia, brigadiere ucciso nel 1994 nella zona di Monza; Mario Natali, l’imprenditore ucciso con un colpo di proiettile per cinghiale nella sua villa a Valentano nel 1988; Rodolfo Manno, scomparso nel febbraio 2002, per essere poi rinvenuto morto nel mare Adriatico al largo di Ortona; Claudia Agostini, il cui corpo fu scoperto la mattina del 13 ottobre 2003 a Roma in via della Lungara, tra due macchine e, infine, Umberto Cocco, che la mattina del 6 settembre 2009, venne ammazzato nella sua casa di Roma con un colpo esploso da una Smith & Wesson. Con piglio scientifico, unito ad una forte passione civile, Lavorino smonta le facili certezze degli inquirenti. Certezze che sono il frutto di errori clamorosi.


Lavorino, il protagonista del suo libro è, potremmo dire, l’errore investigativo. Come nasce l’abbaglio?

«Gli insuccessi investigativi si verificano quando c’è la non adeguatezza investigativa. Tanto che ogni errore giudiziario oppure di analisi criminale nasce sempre da un errore investigativo e da una intuizione della quale poi il gruppo inquirente si innamora. Si chiama “innamoramento della tesi” ed è deleterio per le indagini. E invece il buon investigatore criminale deve essere sempre e comunque sospettoso, diffidente, metodico, deve pensare sempre al peggio. Mai deve farsi ingannare dalle apparenze, mai deve innamorarsi di una tesi».


E per fare questo quali sono le regole auree?

«Quelle che io chiamo le 5 A, ovvero accuratezza delle dichiarazioni testimoniali, accuratezza delle scelta delle circostanze che possano indicare una direzione d’indagine e la pista investigativa da seguire; accuratezza del sopralluogo, della repertazione e della catena di custodia delle prove: accuratezza delle indagini di laboratorio e medico legali e, infine, accuratezza delle scelte in fase decisionale. Il mio libro tende ad esaltare il metodo investigativo logico, analitico e scientifico. Il segreto è tutto lì, avere cioè la massima adeguatezza possibile, saper discernere, essere curiosi, non accontentarsi mai delle verità di comodo».


In alcuni dei casi che lei racconta nel libro, penso a quello del brigadiere Incorvaia, non siamo solo in presenza di errori o pressapochismo degli inquirenti. Par di capire che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio depistaggio.

«Effettivamente in questo caso in particolare siamo di fronte ad errori che hanno attecchito su una realtà che voleva per forza dimostrare la tesi del suicidio. Qui c’è quello che chiamo “inganno strutturale”. Insomma, all’interno del nucleo degli inquirenti e investigatori c’è qualcuno che riesce a depistare le indagini per diversi motivi, altrimenti è lo stesso assassino che abilmente depista. Questo è veramente inquietante. Sul caso Incorvaia hanno sbagliato tutti, nel caso del fisico ascolano Rodolfo Cocco l'assassino è stato abilissimo: ha barato ed ha vinto!».


La macchina dell’errore è una catena formidabile in cui ogni svarione pare reggersi e rafforzarsi su quello precedente; troviamo così pubblici ministeri che avvallano l’errore dei carabiniere o della polizia. E’ così che funziona?

«A me in verità dà fastidio parlare genericamente di carabinieri e polizia, perché sembra che parliamo di tutti i carabinieri e di tutta la polizia. E così non è: parliamo di qualche mela “riuscita male”. Diciamo che c’è qualche investigatore di polizia giudiziaria che avvalendosi della sua carica fa delle enormi cavolate. Inizialmente le indagini le fanno polizia e carabinieri e trasmettono poi l’esito delle loro attività e deduzioni ai pm, i quali pm non avendo esperienza di investigazioni naturalmente si fidano dei loro investigatori. Poi, a seguire, arrivano i consulenti tecnici, medici legali, biologi, esperti balistici ecc. che si adeguano alle impostazioni iniziali. L’errore, se di errore si tratta, nasce da questa catena, come la chiama lei. In genere succede poi che le famiglie delle vittime, giustamente, non accettino di essere trattate con sdegno e non tollerano che non sia fatta giustizia. Capita così che usino toni aspri con i magistrati. Risultato: i pm si chiudono a riccio e difendono gli errori della polizia giudiziaria e, di riflesso, i loro stessi errori, un insieme che si chiama “errore d'équipe”. Si finisce nel cosiddetto “scontro personale”. Nei casi che riporto nel libro i pm sbagliano sapendo di sbagliare, ma non lo ammettono. Ogni indagine sbagliata, ogni delitto irrisolto, ha sempre questi aspetti: gli inquirenti sbagliano dall’inizio e non hanno il coraggio e l’onestà intellettuale di tornare sui propri passi».


Parlando dell’atteggiamento dei pubblici ministeri lei usa, nel libro, parole molto dure: snobbano la difesa delle parti ed è questo, scrive «uno dei molti mali del nostro ordinamento giudiziario, tale da non permettere una proficua collaborazione, un’analisi preventiva volta ad evitare eventuali errori». Qual è l’antidoto a questo abito mentale?

«L’antidoto dovrebbe essere a livello legislativo ed è un percorso lungo e difficile da percorrere. Però, attenzione, non è solo colpa dei magistrati. E’ colpa anche degli avvocati dei familiari delle vittime che non hanno la forza di contestare gli inquirenti. Io, per esempio, avrei gradito in questi cinque casi analizzati nel libro andare a parlare con i pm e confrontarmi e scontrarmi con loro. Gli avvocati hanno sempre detto: “queste cose non si possono fare”. E invece no, queste cose si devono fare! Insomma, anche gli avvocati oltre a infiocchettare i loro discorsi con citazioni in latino e citare a piè sospinto i commi di legge dovrebbero anche fortificarsi sul fronte investigativo ed incalzare il legislatore su questo versante. D’altronde non si capisce bene perché i magistrati si fanno consigliare dai loro consulenti ed investigatori mentre i consulenti di parte degli avvocati non si fanno parlare. E’ ovvio che siamo in presenza di un rapporto squilibrato. Nel nostro paese si ipotizza che essendo il pm un ufficio impersonale persegue la verità, e questo è teoricamente giusto, ma poi nei casi raccontati nel libro scopriamo che, nella realtà, i pm si sono messi a litigare con i familiari delle vittime, nemmeno fossero dei ragazzini».


Lavorino l’esperienza ci insegna che quando i magistrati o gli investigatori o i consulenti sbagliano non sono mai chiamati a rispondere dei loro errori. Pensiamo al caso di Enzo Tortora o anche al caso Cucchi….

« Nel libro riporto una frase di Manzoni: “Spengere il lume è un mezzo opportunissimo per non vedere la cosa che non piace ma non per vedere quella che si desidera”. E cito pure Confucio che ci ricorda che l’uomo non è capace di pronunciare tre semplici parole, ovvero “io ho sbagliato”. Il caso Cucchi è avvilente: è incredibile che ci abbiano dovuto mettere tutti questi anni per arrivare alla verità. Investigatori e inquirenti quando sbagliano in questo paese non pagano. Se pagassero saremmo un pezzo avanti, non dico che magicamente non avremmo più errori investigativi ma certamente vedremmo maggiore attenzione, maggiore equilibrio. In alcuni dei casi raccontati in “Five” stiamo lavorando per rivolgerci alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma le pare possibile! Non è avvilente tutto ciò?».


di Giampiero Cazzato

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