1. I tormentati e infiniti lavori della commissione congresso non portano pace, ma guerra, nel Pd…
Porte che sbattono, urla che risuonano dentro il Nazareno, membri della commissione congresso, come Marroni (mozione Boccia), che abbandonano i lavori parlando di “dati assolutamente falsi” e minacciano valanghe di ricorsi. “Il catalogo è questo”, dentro il Pd che va a congresso, e non è un bel vedere. Ma partiamo dal comunicato ufficiale della commissione Congresso, presieduta dall’onorevole Gianni Dal Moro, che ieri sera, dopo due giorni di lavori praticamente ininterrotti, ha finalmente dato il suo verdetto.
“L’affluenza sulla platea degli aventi diritto è stata del 50,43% % pari a circa 190.000 votanti” certifica Dal Moro, riferendo il risultato del voto degli iscritti dem nei circoli (e già su questo, come vedremo dopo, sorgono vari dubbi…). “Come stabilito dalla Commissione Nazionale - spiega Dal Moro - gli uffici dell’organizzazione del partito hanno comunicato i risultati ufficiosi (ufficiosi, si badi bene, perché restano aperte, appunto, molte contestazioni, ndr.) resi noti dalle Commissioni provinciali per il Congresso”. “Nella giornata di domenica (27 gennaio, ndr.) si sono concluse le votazioni nei circoli. Gli stessi circoli impegnati fino a domenica nel voto hanno trasmesso lunedì i verbali alle commissioni provinciali le quali hanno redatto entro la giornata di martedì le certificazioni provinciali e trasmesso gli ultimi all’organizzazione nazionale nella giornata di oggi. Un lavoro importante che ha coinvolto oltre 6.000 circoli, un impegno di volontariato che rappresenta ancora una volta la presenza capillare del Pd sul territorio nazionale. I risultati parziali di ogni candidato sono, nell’ordine: Zingaretti 47,95%, Martina 36,53%, Giachetti 11,23 %, Boccia 2,91%, Saladino 0,71%, Corallo 0,67%”. “I dati sono ufficiosi perché attendiamo risposta ai ricorsi presentati alle commissioni provinciali e regionali per il Congresso” conclude Dal Moro, aggiungendo che “domenica mattina (3 febbraio, cioè durante i lavori della Convenzione nazionale che scremerà le candidature per ammetterne, alla seconda fase, quella delle primarie aperte, solo le prime tre: nell’ordine, Zingaretti, Martina, Giachetti, ndr.) la Commissione Nazionale certificherà i dati finali che diventeranno ufficiali”. E qui, appunto, già casca l’asino perché sia la mozione Zingaretti, durante i lavori della commissione, sia la mozione Boccia, sbattendo la porta, sostengono che i dati sono stati ‘inquinati’, che molti voti “non sono stati riconosciuti” e “diversi ricorsi pendono”. Il rappresentante della mozione Boccia, Umberto Marroni, in particolare, la prende malissimo: “I dati che stanno facendo trapelare sull’affluenza del voto nei circoli del Pd sono assolutamente falsi. Ho abbandonato i lavori della commissione nazionale per il congresso perché stanno diffondendo dati condizionati da centinaia di ricorsi non ancora discussi, prenderemo pesanti provvedimenti nelle prossime ore. In Calabria, Sicilia e Campania ci sono centinaia di ricorsi pendenti e pretendiamo immediate risposte. Noi abbiamo elettori in carne e ossa che pretendono di essere rispettati. Tra loro molti giovani”. Rincara la dose Filippo Marciante, rappresentante siciliano della stessa mozione, quella che sostiene Francesco Boccia: “I dati diffusi dalla commissione nazionale per il congresso sono assolutamente irreali. Sulla Sicilia sono stati dati dei numeri lontani dalla realtà del voto. Prima di diffondere dati palesemente lontani dalla realtà la commissione nazionale avrebbe dovuto almeno esaminare le centinaia di ricorsi di persone che non hanno potuto neanche votare perché mai convocate. Convocheremo presto una conferenza stampa perché nel Pd di democratico è rimasto solo il nome”. Anche i rappresentanti della mozione Zingaretti, che pure erano pronti a far saltare il tavolo, macinano rabbia e frustrazione: “Hanno convocato la commissione senza neanche avvertirci e, lì dentro, renziani e martiniani sono in maggioranza e fanno ciò che vogliono. Il problema, a questo punto, sono le primarie vere. Se oggi s’inventano dati senza verifica, cosa succederà il 3 marzo, in Sicilia e in Campania? Siamo molto preoccupati”. Poi, però, a dati acquisiti, la portavoce della mozione del governatore del Lazio, Paola De Micheli, prova a smussare e a raffreddare i bollenti spiriti dei suoi: “I risultati definitivi delle assemblee nei circoli certificano, senza equivoci o ombre, l’ottimo risultato della nostra mozione. Un risultato uniforme in tutta Italia che ci premia al Nord, al Centro e al Sud. Siamo andati ben oltre le previsioni fatte all’inizio di questa competizione, quando secondo tutti gli osservatori saremmo arrivati secondi visto che Zingaretti non partecipava da anni alla vita del partito. Invece siamo saldamente primi, distanziando di quasi 12 punti la seconda mozione”. “Anche sommando i voti di Martina e Giachetti – continua la De Micheli - Zingaretti resta primo. Alle primarie tutti potranno partecipare e ricordiamo che in tutte le sfide precedenti chi ha vinto nei circoli poi si è affermato anche nei gazebo. Ora – conclude - tutti a votare perché per cambiare il partito il tre marzo dovremo essere in tanti”. Invece, dalla mozione Martina arrivano canti e inni di giubilo che, in diversi modi e per bocca di vari esponenti, dicono la stessa cosa: “Il congresso è ancora aperto e tutto da giocare. La partita è aperta, possiamo ancora vincere”.
2. Due modi di intendere la partita e qualche ‘verità’.
Del resto, già da giorni, andava in onda la ‘guerra dei numeri’. Abbiamo vinto e non lo vogliono ammettere”, dicevano dal quartier generale di Zingaretti. “Siamo in rimonta e non lo vogliono riconoscere” ribattevano dallo staff di Martina. A seduta ‘fiume’ della commissione congresso ancora aperta, tra i sostenitori delle due mozioni impazzava una guerra di cifre tale da far ‘volare gli stracci’. Il dato definitivo, però, è incontestabile. Zingaretti, il governatore del Lazio - che partiva con il piombo nelle ali, almeno nel voto tra gli iscritti, perché la maggior parte dei colonnelli renziani, dopo il disimpegno del loro leader, si erano schierati con Martina - è davanti a tutti e mancherà di poco la soglia, più psicologica che pratica, del 51% dei voti. Secondo i dati parziali forniti dalla sua mozione, su 166.447 mila votanti, Zingaretti avrebbe preso il 49,1% dei voti (81.648), Martina sarebbe fermo al 35,1% (58.345), terzo – assai distaccato – Giachetti (11, 3%, 18.847). A seguire tutti gli altri, dal quarto, Boccia (3% con 5.021 preferenze) fino a Saladino (0,8%, 1.315 voti) e Corallo (0,8%, 1.271 voti) che verranno certamente esclusi dal secondo, ma non ultimo, step congressuale, le primarie aperte del 3 marzo. Per i sostenitori di Martina, invece, Zingaretti sarebbe ‘fermo’ al 47,2%, Martina scalerebbe al 36,5% e Giachetti al 12,8% su una platea poco superiore, di 175 mila iscritti. Infine, a tagliare – si fa per dire – la testa al toro, ecco i dati definitivi: “Zingaretti 47,95%, Martina 36,53%, Giachetti 11,23 %, Boccia 2,91%, Saladino 0,71%, Corallo 0,67%”.
La tesi – neppure ‘coperta’, ma del tutto ‘scoperta’ – dei renziani è dei martiniani è che, nel voto tra gli iscritti, Zingaretti sarebbe rimasto sotto la maggioranza assoluta, e gli altri due candidati, sommati, sarebbero invece vicini al 50%. La tesi presume che i consensi di Martina e Giachetti possano sommarsi nel voto ‘libero’ delle primarie aperte. L’obiettivo, dunque, non sarebbe più quello di far vincere Martina dentro nelle urne delle primarie, ma precostituire una maggioranza ‘di blocco’ che tenga Zingaretti ben al di sotto la maggioranza assoluta, demandando così la scelta del segretario alla convocazione dell’Assemblea nazionale, terzo e ultimo step congressuale, dove votano i delegati delle varie mozioni e non gli elettori. Il dato tecnico, per i martiniani, è che “alla fine Zingaretti chiuderà con circa 80 mila voti, di cui 12 mila presi nel ‘suo’ Lazio”, come a volerne sminuire la vittoria, mentre il dato politico è che “la nostra area è ancora in maggioranza”, dicono i renziani. Il problema è che ‘Zinga’, anche se per ora solo nel voto tra gli iscritti, ha ‘sbancato’ praticamente in tutte le regioni italiane, dal Nord al Centro, regioni rosse in testa, e in buona parte del Sud (Puglia e Calabria, ad esempio). Martina, invece, vince in Veneto, ma per soli 18 voti, in Campania (dove ha pesato il massiccio sostegno del governatore De Luca), in Basilicata e, alla fine, in Sicilia. Qui il congresso regionale non si è neppure tenuto, tra mille polemiche, e il segretario, il renziano Davide Faraone, ha porto acqua a Martina, annullando il voto in molti circoli, specie a Palermo. Inoltre, gli zingarettiani hanno contestato, fino all’ultimo, il voto in diversi circoli dell’Isola e persino sostenuto di essere in testa, con il 48,49%, anche se l’annullamento del voto di tutti i circoli della provincia di Trapani, alla fine li ha riportati sotto. Ma comunque dicono: “Non superiamo il 50%? Ogni volta che lo ricordano ci fanno un favore. Chiederemo a tutti di andare ai gazebo”.
Eppure, se è vero che la somma, come diceva Totò, “fa il totale”, le due mozioni alternative a quella di Zingaretti (Martina al 36,5%, e Giachetti al 11,2%, ‘totale’ 47,7%), non basta, questa cifra, allo stato, a ‘superare’ Zingaretti (47,9%). Ma serve a ‘dimostrare’ che la presunta “area riformista” (ex renziana, cioè) ha ancora il controllo del partito e può far andare ‘sotto’ Zingaretti alle primarie aperte. L’obiettivo di Martina (e, forse, di Giachetti), in realtà, è un altro: se ‘Zinga’ restasse lontano dal 51% dei votanti ai gazebo del 3 marzo 2019 (quando, è bene ricordarlo, possono votare non solo gli iscritti, ma anche tutti i simpatizzanti ed elettori dem, al prezzo di un obolo di 5 euro e della sottoscrizione di una ‘Carta degli intenti’ che li riconosce come elettori del Pd) lo scontro e l’elezione del segretario si sposterebbe, infatti, nell’Assemblea nazionale. Organismo composto da mille persone, elette sulla base delle varie mozioni presentate e collegate a uno dei primi tre candidati che concorreranno alle primarie aperte, e che, dovendo ratificare la nomina del segretario, possono – sempre e solo se nessuno raggiunga il 51% dei voti nelle primarie aperte – ribaltare il risultato del voto del 3 marzo, dando vita ad ‘alleanze’ tra due o più mozioni (nel caso, i delegati di Martina più quelli di Giachetti) che potrebbero ribaltare il successo del candidato arrivato privo nel voto dei gazebo (nel caso, Zingaretti), ma privo del 51% dei voti.
3. Il primo numero che non torna è quello degli iscritti
Insomma, nel Pd volano gli stracci e il clima si arroventa. Un po’ lo si poteva immaginare, un po’ fa sempre impressione, anche perché mentre il Pd ‘parla’ solo di se stesso, ripiegato com’è nelle sue dinamiche congressuali, il Paese parla d’altro e si accorge poco del congresso in corso. La pietra dello scandalo, in ogni caso, resta, per ora, questa: il voto degli iscritti nella prima fase congressuale, quella che, appunto, riguarda – in merito alla platea degli aventi diritto – gli iscritti al Pd dell’anno 2017, che potevano rinnovare la loro tessera anche nel momento stesso in cui si recavano al loro circolo per votare per uno dei sei candidati, e quelli dell’anno 2018 che potevano votare solo entro la data della convocazione della convenzione regionale sempre in vista del congresso. Il primo punto oscuro, e non ancora chiarito, peraltro, riguarda proprio la platea degli aventi diritto al voto. L’ultimo dato ‘certificato’ ufficialmente, in merito agli iscritti al Pd, è quello del 2016, lo rilasciò, all’epoca, Lorenzo Guerini, coordinatore della segreteria di Renzi e diceva che erano 450 mila (di cui 50 mila juniores, tesserati ai Giovani dem). Già sul dato del 2017 è vuoto assoluto. Non esistono, a tutt’oggi, dati ufficiali. Il Nazareno parla, informalmente, di una platea di “circa 390 mila iscritti” (quindi è già un -60 mila sul 2017), ma in modo ufficioso. Sugli iscritti 2018 regna il mistero. In ogni caso, visto che avrebbero votato, più o meno, circa 165 mila (il dato fornito dalla mozione di Zingaretti) e circa 175 mila (il dato fornito dalla mozione di Martina) votanti, che rappresenterebbero “oltre il 51% degli aventi diritto”, la somma che ne viene fuori, anche fossero 180 mila e oltre, resta sempre meno della metà dei presunti iscritti del 2017 (390 mila). Dunque, delle due l’una: o il Pd ha registrato un verticale, e drammatico, crollo degli iscritti in meno di due anni (dal 2016 al 2018) oppure a votare, in quest’occasione, è andato molto meno della metà dei suoi (presunti) iscritti.
4. I casi contestati e ‘aperti’. La Campania e la Sicilia.
Ma questo è solo il primo dei problemi che infiammano il dibattito e che hanno portato la commissione congressuale, presieduta da Gianni Dal Moro, che è riunita da due giorni - neanche si trattasse di un’aula parlamentare che deve approvare, nottetempo e il 31 di dicembre, la manovra economica prima che scatti l’esercizio provvisorio - in una sorta di “seduta fiume” ininterrotta e che ha messo i nervi di tutti i suoi componenti a dura prova. Sono volati, per giorni, gli stracci, appunto, e ancora volano dentro la commissione.
Ma, si diceva, è stata in particolar modo la Sicilia la pietra dello scandalo, quella che ha impedito, per giorni, alla Commissione congresso di rendere noti i risultati della prima fase, nonostante fossero passati tre giorni dalla chiusura dei seggi. La Commissione congresso, infatti, è stati inondata di ricorsi sull’isola, dove si è andati al voto con notevole ritardo e in cui molti dati sono stati contestati. C’è, ad esempio, il caso di un circolo dove tutti e 45 gli iscritti hanno votato per Maurizio Martina, sollevando più di qualche dubbio. Ma analoghi casi, fanno notare i suoi, si sono verificati in altre regioni a beneficio di Zingaretti. A Roma, in un circolo con più votanti che iscritti, dove la votazione è stata ripetuta, si è avuto lo stesso risultato: 47 voti su 47 a Zingaretti. Segno della presenza dei ‘signori delle tessere’ che controllano i consensi, come è successo anche in Campania. Peraltro, sono troppo pochi i funzionari del partito da mandare da Roma a dirimere le dispute nelle regioni più ‘calde’. Sempre in Sicilia, la situazione ha raggiunto le soglie del parossismo e della comicità, forse involontaria. Secondo la mozione Martina, l’ex segretario reggente avrebbe vinto con il 48% dei consensi (Martina, 48,07%, voti 5502; Zingaretti 45,17%, 5170 voti; Giachetti 652 voti, 5,7%; Boccia 0,64%, 73 voti; Saladino 0,31%, 36 voti; e Corallo 0,10%, 12 voti). Secondo la mozione che sostiene Zingaretti, invece, “abbiamo vinto noi col 48,4%”. Insomma, lo stesso, identico, risultato… Solo ieri sera, la commissione ha tagliato la testa al toro, attribuendo la vittoria, nell’isola, a Martina, anche perché il voto nella provincia di Trapani, tutto pro-Zingaretti, è stato annullato.
Per quanto riguarda la Campania (dove sarebbe in testa Martina soprattutto grazie all’84,3% ottenuto a Salerno, ‘feudo’ di De Luca) mancano all’appello i risultati di 36 circoli: il 28 gennaio sera la commissione regionale ha inviato a Roma un dato incompleto senza i verbali di 36 circoli, circa un terzo dei 126 totali. Martina, inoltre, ha vinto a Napoli e provincia e, dai dati ufficiali certificati dalla commissione provinciale per il congresso, il segretario uscente esce primo con 4.623 voti, il 53,9% del totale. Al secondo posto Nicola Zingaretti con 2958 voti, equivalenti al 34,5%, terzo Roberto Giachetti con 716 voti, l’8,3%.
5. Analisi di un faticoso risultato. Chi ha vinto e dove.
Insomma, sempre parlando di dati e circoli dai voti ‘contestati’, i parlamentari vicini a Zingaretti sottolineano il dato di Salerno e Palermo, dove Martina ha vinto bene grazie alle “carriolate di voti” portate da Vincenzo De Luca e Davide Faraone. Mentre tra i sostenitori di Martina si evidenzia come i circa 80.000 voti incassati Zingaretti li abbia raccolti soprattutto nel ‘suo’ Lazio (12 mila) e che, “tolto il dato della sua regione, arriva ad avere lo stesso risultato ottenuto da Andrea Orlando nel 2017 che, in quel congresso, complessivamente arrivò a circa 66mila voti” (contro i 175 mila circa di Matteo Renzi, allora vincitore delle primarie). “Al di fuori del Lazio, il risultato di Zingaretti pareggia praticamente ovunque quello di Orlando”, insinuano i parlamentari vicini a Martina. Insomma, nei capannelli di parlamentari che sostengono Maurizio Martina si tira un sospiro di sollievo: “Si può dire, in sostanza, pericolo scampato...”. Obiezioni di fronte le quali un esponente del Pd vicino a Zingaretti sorride: “Non credo che Nicola si preoccupi di questo. Tutt’altro: l’importante è portare a votare quanta più gente possibile perché, se la vittoria si da per scontata, si rischia che tanti iscritti e simpatizzanti rimangano a casa il 3 marzo”. Tesi confermata da un’altra dichiarazione del governatore: “Ha ragione Martina: comunque la partita è aperta. Per cambiare completamente il Pd il 3 marzo tutti a votare alle primarie”.
La verità, però, sembra chiara. Zingaretti, che doveva arrivare ‘dietro’ a Martina, almeno nel voto tra gli iscritti, arriva primo e manca per un soffio il 51% dei voti assoluti, vincendo, in pratica, in tutte le regioni – Nord, Centro e Sud – tranne che in Campania, Basilicata e Sicilia. Martina arranca al secondo posto, indietro di ben 11 punti, Giachetti, pasdaran del renzismo, prende un ragguardevole 11%, tutto di renziani ‘duri e puri’, gli altri tre non contano. Alle primarie del 3 aprile, in ogni caso, si andrà ancora con il fiato sospeso e senza la certezza che nessun candidato, neppure Zingaretti, possa superare la soglia ‘magica’ del 51%, cioè quella che gli consentirebbe di vincere subito, senza se e senza ma, soprattutto senza dover passare per le forche caudine dell’Assemblea nazionale, che diventerebbe, a quel punto, una bolgia infernale dove potrebbe accadere davvero di tutto. Una prospettiva devastante, alla fine, per tutto il Pd. Come confida a un parlamentare amico, infatti, Marco Minniti, l’ex ministro che si è ritirato dalla corsa, ma che, alla fine, ha deciso – tra la sorpresa generale – di appoggiare Zingaretti “perché è l’unico che può prendere davvero il 51%”, se nessuno dovesse raggiungerlo, il 51%, “avremmo un segretario dimezzato e, in un qualsiasi talk show, un avversario politico potrebbe dire al segretario: ‘scusa, ma chi sei, a nome di chi parli? Non hai nemmeno la maggioranza assoluta nel tuo partito!’. Una prospettiva che, appunto, farebbe del Pd un partito ancora più debole.
di Ettore Maria Colombo
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