«La degenerazione della politica e il decadimento dei rapporti tra politica e magistratura hanno ucciso il sogno dei padri costituenti, che avevano immaginato il Csm come un luogo dove difendere autonomia e indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, attraverso le migliori espressioni sia della magistratura sia del mondo giuridico e dell'avvocatura». Quel sogno, iniziato nel lontano luglio 1959, oggi per Antonio Ingroia è finito nella polvere, screditato dalla furia correntizia e dalle incursioni della politica. L'ex procuratore aggiunto di Palermo - protagonista dell'indagine sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia - dopo una non fortunatissima esperienza politica con Azione civile fa l'avvocato, ma non ha perso il gusto della schiettezza. Quello, per dire, che nel 2011 ospite del congresso dei Comunisti italiani, lo portò a definirsi un «partigiano della Costituzione», attirandosi critiche a non finire anche da parte del Csm. Ma Ingroia non è uomo che si ferma certo per una contestazione o un richiamo. Non si è bloccato nemmeno davanti all'uscio del Quirinale. La sua condotta nella vicenda delle intercettazioni tra l'ex ministro degli Interni, Nicola Mancino (ricordiamo, imputato di falsa testimonianza nelle indagini sulla trattativa e poi assolto) e l'allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano portò ad un conflitto memorabile e asprissimo con Re Giorgio che chiedeva – e poi ottenne – la distruzione di quelle registrazioni.
Del caos che si è abbattuto su palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura, e della vicenda che vede protagonista Luca Palamara, il magistrato romano indagato dalla procura di Perugia per corruzione, sospeso dal Csm e pochi giorni fa espulso pure dall'Associazione nazionale magistrati Ingroia offre una chiave di lettura che va oltre la vicenda specifica che ha investito Palamara. Anzi. «questa storia – dice a Spraynews – è solo la punta dell'iceberg. E se è per questo di iceberg pericolosi ve ne sono anche di altri e di più grossi».
Ingroia, Palamara ha annunciato che impugnerà la sua espulsione dall'Associazione nazionale magistrati. «Io non faccio nomi per una chiamata in correità, ma per dimostrare il mio ruolo» all'interno del sistema ha detto l'ex presidente dell'Anm, precisando di voler spiegare fino in fondo come funzionava quel sistema. Che cosa vuol dire?
«Palamara dice una verità che ovviamente rende manifesta solo oggi perché ora lo stesso sistema che lo ha usato, e di cui lui comunque era una componente importante, lo ha espulso e scaricato e lo utilizza come capro espiatorio. E quindi oggi e non ieri - quando manovrava i fili delle carriere dei magistrati - oggi e non ieri, Palamara usa parole di verità. E la verità è che quel sistema correntizio non è solo una questione di malcostume. E' qualcosa di più. Molto di più».
Cosa è Ingroia?
«E' un vero e proprio vizio della democrazia. La democrazia si fonda sul principio della separazione dei poteri e questo sistema è, invece, l'esatto contrario. Politica e magistratura sono legate a filo doppio da tutta una serie di interessi torbidi e beceri; basti pensare alle riunioncine notturne negli hotel, alle conventicole dove si decidevano le carriere dei magistrati, ma anche come tutelare gli interessi del politico indagato di turno. Si è messo in moto in tutti questi anni un meccanismo assurdo di reciproco condizionamento, dove il politico influenza le carriere dei magistrati attraverso gli uomini della magistratura che fanno questa attività lobbistica al Csm. Il sistema è abbastanza semplice nella sua nefandezza: il magistrato, soprattutto quelli che approdano agli incarichi più alti, si rivolge al capocorrente, che si comporta quasi come un capobastone e il capocorrente, a sua volta, ha il suo referente politico. Si formano le alleanze, dopo di che il magistrato, diventato capo della procura X, con i poteri straordinari che oggi ha e che sono molti più forti di quanto non fossero venti anni fa quando io facevo il sostituto a Palermo, finisce per esercitare un vero e proprio controllo sui suoi sostituti».
Si è trattato, insomma, di un processo lungo che, se non capisco male, è andato avanti a prescindere dalle mutevoli maggioranze parlamentari.
«Sì. E' stata un'opera costante. La politica, attraverso maggioranze apparentemente diverse ma secondo precise linee di continuità, cambia la carriera dei magistrati, centralizzando tutto il potere nei capi delle procure e i capi delle procure, a loro volta, passano attraverso questo processo di condizionamento per cui il procuratore capo sa di avere degli obblighi nei confronti del suo capobastone correntizio e dei referenti politici che lo hanno appoggiato. A suo volta il politico consegna un potere fortissimo nelle mani dei procuratori capo che cercano di condizionare la politica per poterne avere dei ritorni. E' un gioco di potere e ricatti politici a discapito della democrazia e della giustizia».
Questo rapporto malato tra politica e magistratura è bilaterale. A volte cambiano anche i ruoli e le parti in commedia. Ma a leggere le cronache dei giornali sembrerebbe quasi che il marcio sia solo dalle parti delle toghe.
«Di tutto ciò ne approfitta in senso strumentale la politica che si nasconde dietro le spalle del Palamara di turno, che diventa così il capro espiatorio del sistema. E purtroppo non vedo in campo prospettive di rinnovamento».
Che fa Ingroia, l'avvocato difensore di Palamara?
«Assolutamente no. Peraltro quando ero magistrato e lui era presidente dell'Anm, Palamara ha sempre preso posizioni certamente non di sostengo nei confronti delle iniziative della procura di Palermo, ritenute politicamente “scorrette”. Palamara stava sempre dall'altra parte, ma comunque devo riconoscere che la crocefissione mediatica nei suoi confronti ha qualcosa di eccessivo e questa eccessività nasconde anche uno stratagemma utilizzato dal sistema per salvarsi. Lo ripeto non vedo prospettive e progetti concreti che possano cambiare il sistema. Servirebbero non piccoli interventi ma una innovazione radicale, che non è all'orizzonte. La cosiddetta terza repubblica, quella in cui ci troviamo, d'altronde è una figlia minore del ventennio berlusconiano. Viviamo un periodo molto mediocre, anche sotto il profilo etico».
Il correntismo, che oggi soffoca l'Anm e il Csm, è nato in origine con forti ragioni ideali e culturali. Di quelle ragioni si è persa traccia?
«E' giusto ricrodarlo. Quello che noi oggi chiamiamo correntismo, dandogli una valenza deteriore, fu all'inizio, parlo degli anni Settanta, un processo positivo; c'erano correnti di pensiero e non di potere, correnti che, da un lato interpretavano il ruolo sociale del magistrato - il magistrato come guardiano della Costituzione e a tutela dei diritti dei cittadini più deboli - e, dall'altro, coloro che vedevano le toghe come guardiane del potere. All'inizio degli anni Ottanta è iniziato il progressivo deterioramento del correntismo, che è passato attraverso la contiguità politica e l'appiattimento delle correnti sui partiti. Quasi tutte le correnti dell'Anm, persino le più nobili come Magistratura democratica, di cui io ho fatto parte, avevano un partito di riferimento e non di rado si sono acconciate ad essere le stampelle giudiziarie a cui i diversi partiti si appoggiavano».
Superare il correntismo attraverso il meccanismo dell'estrazione a sorte dei componenti del Csm può essere una soluzione? Che ne pensa della proposta-appello di alcuni giuristi che auspicano un sistema a doppio turno: al primo, la scelta avviene per estrazione a sorte di un paniere di legittimati passivi tra cui poi si eleggono i 16 togati.
«Capisco le ragioni di allergia nei confronti di sistemi come quello del sorteggio totalmente casuale. Anche io quando se ne cominciò a parlare ero contrario, ma devo dire che ultimamente mi sto convincendo che il correntismo sta così dilagando che vedo grandi difficoltà a trovare soluzioni che non siano radicali, come appunto quella di inserire metodi di sorteggio. Non dico che attraverso il sorteggio si possa entrare automaticamente al Csm, immagino anche io una modalità di elezione mista con un doppio turno. Insomma, va tolto alle correnti la possibilità di determinare la carriera parallela dei magistrati. Il tema è interrompere il circuito malato che porta il giovane magistrato nelle braccia della corrente, corrente che come una mamma lo accompagna fino alla fine della carriera in ogni suo passaggio, per farlo poi approdare nelle famose carriere parallele che passano attraverso un cursus honorum che nulla a che fare con l'esercizio della giurisdizione».
Vi sono anche altre proposte che mirano a limitare il potere dei capi degli uffici.
«Bisogna però vedere dove si indirizza il potere che viene tolto ai capi degli uffici. Verso l'alto o in modo orizzontale e diffuso? Se lo fai verso l'alto - come mi pare sia nella proposta di modifica del Csm del governo, con il Csm che si attribuisce in sostanza poteri di indirizzo della politica giudiziaria che deve essere attuata - ebbene il rimedio rischia di essere peggio del male perché così si finisce per consegnare a politica e correnti la politica giudiziaria, senza nemmeno la mediazione dei capi delle procure».
Come se ne esce allora?
«Semplicemente bisognerebbe tornare al vecchio sistema, ovvero sancire la totale autonomia e indipendenza dei singoli pm, riducendo il potere del capo dell'ufficio, che diventando così meno decisivo non sarà più soggetto come oggi al condizionamento della politica. Certo è che l'unica cosa che non si può fare è pensare che tutto si risolve cacciando Palamara dalla magistratura. Palamara è una rotella, importante ma sempre rotella, dell'ingranaggio».
Nei giorni scorsi è tornata alla ribalta la questione della trattativa Stato-mafia. Nino Di Matteo davanti alla Commissione nazionale antimafia ha ricordato che Giorgio Napolitano, nella fase dello scontro tra la procura di Palermo e il Quirinale per il famoso conflitto di attribuzioni, le mandò un'ambasciata attraverso il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, con la quale le chiedeva se si poteva trovare un accordo per evitare il conflitto davanti alla Corte Costituzionale. Fra gli ambasciatori indicati dal Colle per un ipotetico incontro c'era anche quello di Palamara. Lei ha confermato questa ricostruzione mentre Mauro ha smentito seccamente. Chi dice la verità?
«Guardi, queste cose le ho scritte due anni fa in un libro e nessuno se n'è lagnato. Non so se Mauro abbia subito una pressione per negare questo episodio, certo è che la sua è stata una smentita imbarazzata e pure abbastanza sghangherata. Il presidente emerito non ne esce bene. Da un lato minaccia il conflitto di attribuzioni che poi ha attuato, dall'altro cerca con una modalità impropria un canale inusuale ed extra istituzionale come il direttore di Repubblica. E così va a farsi benedire pura l'autonomia dei giornali mainstream».
Mauro ha sostenuto pure che fu lei a cercare un canale di comunicazione con il Quirinale e non viceversa. E addirittura dice che all'epoca non sapeva nemmeno chi fosse Palamara
«Ma scusi! Io all'epoca ero procuratore aggiunto, numero due della procura di Palermo, capo del pool sulla trattativa. Se avessi voluto un contatto con gli uffici del Quirinale avrei percorso i canali istituzionali, non avevo di sicuro bisogno di un direttore di giornale per entrare in contatto con il Capo dello Stato. Ma non finisce qui. Mauro sostiene che nel 2012 lui non sapeva nemmeno chi fosse Palamara («Nessuno mi ha mai fatto il nome di Palamara, un nome che ho scoperto più tardi leggendo le cronache dei giornali e che al momento non conoscevo»: queste le parole esatte dell'ex direttore di Repubblica, ndr), Peccato che allora Palamara fosse il presidente dell'Anm e che, anche in ragione delle sue nette prese di posizione contro gli attacchi di Berlusconi e dei berlusconiani alla magistratura, veniva intervistato con una certa frequenza proprio dal giornale di cui Ezio Mauro era direttore».
Nel 2013 le registrazioni tra Napolitano e Mancino sono state distrutte su ordine della Cassazione. Mai si era visto prima in Italia un conflitto così aspro tra poteri dello Stato. Che risposte si è dato in questi anni?
«La furia esercitata dal Quirinale in quell'occasione - pur all'interno dell'esercizio di un potere legittimo - fu un fatto, a mio avviso, assolutamente inedito. Non ci sono precedenti nella storia italiana di una dichiarazione di guerra con cui la più alta carica dello Stato si scaglia contro un procura della Repubblica».
Giampiero Cazzato
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