In quella foto del 1955 c’è probabilmente il segno di una predestinazione. E’ l’8 maggio, settimana della Croce Rossa, e un bimbetto di appena otto anni, mano nella mano ad una crocerossina, cammina in via della Conciliazione a Roma con al collo la sua bella cassetta per le offerte all’associazione. Scopriremo nel corso dell’intervista che quella foto seppiata dal tempo ha fatto il giro del mondo, un simbolo dell’impegno del movimento internazionale. Diversi decenni dopo, quel bambino, ormai uomo, sarà il fondatore, nel 1976, di Villa Maraini, che - come organo della Croce Rossa – opera per la cura e la riabilitazione dalle tossicodipendenze, abuso d’alcool e gioco d’azzardo. Da quell’8 maggio del 1955 Massimo Barra ne ha fatta di strada fino ad arrivare a ricoprire il ruolo di Presidente nazionale e Presidente della Commissione permanente della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Ha compiuto missioni in oltre 120 paesi di tutti i continenti per diffondere una politica umanitaria sulle droghe. È un vulcano Barra, competenza ed empatia sono la sua cifra. Da qualche settimana ha pubblicato “Pianeta droga per genitori, insegnanti, istituzioni, operatori antidroga e tossicomani”, in cui offre una sintesi delle osservazioni sul tema droga, frutto dell'ascolto dei quasi 50mila tossicomani che in oltre 40 anni hanno frequentato Villa Maraini.
Quando a Barra chiediamo se sia un caso o la predestinazione ad averlo messo sulla strada della Croce Rossa ci risponde che è stata una giusta combinazione delle due cose. In realtà tutti lo vedevano indirizzato alla carriera giornalistica, «perché - racconta - scrivevo bene». Giurisprudenza, tanta gavetta e qualche redazione di giornale che ti assume. Ma per fortuna non è andata così.
Come è andata Barra?
«Vicino casa mia, in piazza Cola di Rienzo, abitava una signora moglie di un medico. Non aveva figli ed era una volontaria della Croce Rossa. Amava i bambini, è successo così che mi sono ritrovato a passare molto tempo in quella casa. Ogni giorno vedevo appesa in corridoio la divisa bianca con la croce. Mentre i ragazzini della mia età si appassionavano alle storie di avventura lette sui fumetti, per me l’avventura erano le storie che la signora mi raccontava: storie di viaggi in posti lontani, storie di generosità, di impegno nel gestire le emergenze. Mi portava in giro per la giornata mondiale della Croce Rossa a raccogliere offerte ed è in quell’occasione che un fotografo ci scattò quella foto che fu pubblicata su diverse riviste internazionali».
A 13 anni era già un pioniere della Croce Rossa. Conclusione, qualche anno dopo: al diavolo giurisprudenza e il mestiere di reporter per quello di medico.
«Io son diventato medico perché stavo in Croce Rossa e non viceversa. La domenica, per dire, andavo sempre nei pronto soccorso oppure nei centri di raccolta del sangue. Le corsie dei reparti sono diventi luoghi familiari e alla fine, scegliere medicina mi è sembrata la scelta più naturale. Nel 1972 mi sono laureato in medicina con lode. Ma anche qui il caso ci ha messo lo zampino. La mia specializzazione era Medicina dello Sport e invece mi sono ritrovato ad occuparmi di quello che allora era un territorio ignorato dai più, quello del disagio e delle tossicodipendenze».
“Pianeta Droga” il suo ultimo libro è il racconto di 40 anni di lavoro.
«Si, ma non solo. Il libro è fatto di due parti, la prima con qualche considerazione, frutto dell’esperienza con 50 mila tossici. La seconda parte è la cronistoria di come un’idea di centro per curare 5 persone al giorno per 4 ore, che era stata la prima fantasia di Villa Maraini, sia poi diventato l’unico centro in Italia che è sempre aperto e che accoglie oltre 600 persone al giorno».
Lei è molto orgoglioso della sua creatura. Recentemente ha detto che senza la Croce Rossa Villa Maraini non sarebbe mai nata, ma ha anche aggiunto che la Croce Rossa oltre che madre è stata anche matrigna? Ci può spiegare?
«Vede, quando io ho aperto Villa Maraini i figli dei prefetti e delle persone ricche non si drogavano. I funzionari dello stato, la politica, non ritenevano che la società si dovesse occupare dei problemi dei tossici. Il ragionamento che si faceva allora era che i drogati dovevano andare in galera e che la tossicodipendenza fosse una questione che riguardava solo le forze dell’ordine. A questo aggiungiamo che la Croce Rossa aveva altre cose da fare. Ed è un atteggiamento questo che ho ritrovato e ritrovo in diverse parti del mondo. Molte società di Croce Rossa non intendono giocare un ruolo, dicono “others do it better”, gli altri lo fanno meglio. Anche in Croce Rossa, nonostante i successi, nonostante tutto, è una battaglia continua. Anche nella Croce Rossa è vivo e forte lo stigma del drogato».
Come è cambiato in questi anni l’approccio alle tossicodipendenze?
«Innanzitutto c’è una coscienza maggiore che i tossici vanno curati. Chi si vuole curare oggi trova quello che 40 anni fa non trovava, i posti cioè dove andare. Questo, con tutti i limiti, è un fatto positivo simmetrico all’accesso universale alle cure che caratterizza il sistema sanitario italiano».
E l’approccio delle persone che si drogano? È cambiato anche quello o è sempre lo stesso?
«È sempre lo stesso ed è la ricerca del piacere, sfuggire al dolore, sia fisico che esistenziale. La droga sin da tempi di Noè è apparentemente una buona soluzione, anche se poi fa pagare con gli interessi l’alleggerimento della sofferenza che all’inizio procura».
Villa Maraini è famosa per aver portato all’attenzione un nuovo modello di lotta alle tossicodipendenze. Un modello che parte dalla persona umana, che rifugge da tutte quelle modalità burocratiche che non fanno altro che allontanare i tossici invece di avvicinarli. Un modello la cui parola d’ordine è “presa in carico”. Ce la può spiegare?
«In tutto il mondo si commette ancora l’errore di separare le terapie. Io propongo il continuum of care cioè la presa in carico. Ma la presa in carico non può essere la presa in carico determinata dalle mie modalità d’azione, perché allora vorrebbe dire che il tossico si deve adeguare alla terapia e invece noi riteniamo che è la terapia che si deve adeguare al tossicomane. E siccome la tossicomania non è una funzione omogenea ma dipende da tanti fattori che sono cangianti da un giorno all’altro, noi ci dobbiamo adeguare alla malattia. In altri termini se io propongo una comunità terapeutica ad una persona che in comunità non ci vuole andare, prima o poi quella persona se ne va. Quindi quanto più una terapia è pretenziosa - pretende tutto e subito, un po’ come la droga - tanto più è destinata a fallire. Quello che ho imparato in questi anni, quello che predico e voglio mettere in atto, è la continuità delle cure. E’ fondamentale – e a Villa Maraini applichiamo questo principio – la differenziazione delle tecniche di recupero. Le cure variano a seconda del soggetto perché la tossicomania varia a seconda di un cervello, di una o più sostanze, e di uno o più contesti».
Lei è molto critico con la burocratizzazione delle cure: quando un tossico entra in un Sert la prima cosa che gli chiedono è: “dove abiti”. È davvero così?
«È così. Questa e banalità del genere sono le prime domande che si sente rivolgere un consumatore di droga. E invece gli dovrebbero stendere il tappeto rosso, essere accoglienti. Purtroppo la politica non capisce come affrontare davvero il fenomeno delle tossicodipendenze in Italia; lo ha capito solo una volta, quando ha fatto la legge nazionale antidroga 309/90 che è rimasta inalterata nel corso degli anni. Una legge ottima. Gli è scappata bene, quasi loro malgrado, poi però ci hanno pensato le regioni ad eliminare gli aspetti qualificanti di questa legge, aspetti che sono la scelta del medico, del luogo di cura, addirittura la garanzia dell’anonimato. Questa legge ha l’obiettivo di salvaguardare la salute del singolo, della collettività e anche la sicurezza, perché un tossicomane che non si cura può essere pericoloso. L’unico investimento che può fare lo stato non è la repressione ma la presa in carico. La repressione è violenza e la violenza porta sempre altra violenza. E le dirò di più: la presa in carico deve essere globale. Cioè a dire, se io sto per strada devo pensare a salvarti la vita prima che a disintossicarti. La disintossicazione è l’ultimo obiettivo».
La politica italiana da anni rispetto alla questione droghe oscilla sul pendolo proibizionismo- antiproibizionismo. Come scappare dal pendolo e dai suoi inevitabili moralismi?
«Facendo un salto di qualità e capendo che al cervello dello status legale delle sostanze non glie ne frega niente. Le sostanza hanno un loro effetto oggettivo che non dipende dal fatto che sono legali o meno. Non è che la nicotina è buona perché legale e la cocaina è cattiva perché è illegale. Il cervello ne viene colpito a prescindere, quindi la discussione proibizione-non proibizione ha a che fare, in sostanza, con chi ci deve guadagnare dalla stupidità umana».
Chi ci deve guadagna dal fatto che la gente si droga?
«Lo stato o le multinazionali del crimine, oppure le multinazionali legali, quelle che si stanno buttando a capo fitto sul business della cosiddetta cannabis light. A me francamente, che mi ritengo dalla parte dei tossici, non mi interessano gli aspetti sociologici, a me interessa l’individuo».
Ha citato i negozi di cannabis. Ma si può mettere sullo stesso piano droghe leggere e droghe pesanti?
«No, ogni sostanza ha a sua essenza la sua caratteristica la sua capacità di modificare il cervello. E la capacità di modificare il cervello dipende pure dal cervello medesimo. Non si deve parlare della sostanza e basta. Se io faccio una fiala di morfina ad uno in ospedale, in genere quello non diventa tossicomane, se invece se la va a cercare per strada, diventa tossicomane. La sostanza è la stessa ma è il contesto che è diverso. Detto questo non sono favorevole alla cannabis in generale, né sono favorevole a queste discussioni da piccolo chimico su Thc e i suoi quantitativi, perché creano solo confusione. Tanti ragazzi ritengono che la cannabis sia assolutamente innocua e che è lecito farsi».
Quando la politica parla di droghe si finisce sempre a considerare l’aspetto repressivo del fenomeno. Secondo lei è utile, ad esempio, che la polizia si presenti davanti alle scuole con i cani antidroga?
«Non cambia la natura delle cose. Forse sull’opinione pubblica in senso lato ha un effetto psicoterapico, si sente rassicurata, ma all’atto pratico serve a poco. La repressone elimina il 10 per cento del circolante nel mondo, per cui anche raddoppiando gli enormi stanziamenti per le repressione ci sarebbe droga abbastanza. Noi vogliamo fare una grande iniziativa per lanciare il concetto che chi intercetta un tossico, per esempio le forze dell’ordine, lo deve avviare non a una strategia penale oppure farlo diventare un fascicolo, ma indirizzarlo immediatamente ad una azione terapeutica da parte di chi lo possa prendere in carico globalmente».
Pochi giorni fa chef Rubio, personaggio televisivo di numerosi programmi, ha lanciato l’allarme eroina a Roma.
«Mi fa piacere che Chef Rubio si sia accorto del ritorno dell’eroina tra i giovani e del degrado vicino la stazione Termini, cosa che abbiamo denunciato da mesi e che cerchiamo di contenere da oltre vent’anni con un presidio del Camper dell’Unità di Strada. Spero che Chef Rubio venga a trovarci a Villa Maraini, per rendersi conto della nostra realtà e della lotta quotidiana che dobbiamo fare non per curare i malati di droga, ma per difenderci dai malati di burocrazia e che non abbia fatto questa uscita solo per avere qualche followers in più».
La disapprovazione sociale nei confronti dei tossici, un po’ come per i malati mentali, è da sempre fortissima. Subire lo stigma porta all’esclusione, al rifiuto, all’indifferenza.
«L’uomo è colpevole di giudicare. Nostro Signore diceva non giudicate se non volete essere giudicati, non condannante se non volete essere condannati. E aveva ragione. Il fatto è che tutti giudicano. Eppure posso dire per esperienza che atteggiamenti giudicanti e violenti peggiorano la situazione. Quando facciamo i gruppi con i genitori diciamo sempre che quando si caccia un tossico di casa – e parliamo di una persona che fa già una vitaccia - lo si condanna ad una vita ancora peggiore, aumentando parossisticamente il rischio di morte. La morte va evitata, questo è il primo obiettivo della terapia. I genitori possono giocare un ruolo terapeutico se non si fanno sommergere dalla disperazione, dalla cattiveria, dall’ignoranza. Torme di psicologi sentenziano “cacciateli di casa”. Come se fosse la soluzione. Invece è solo un pezzo del problema. Io, con la mia esperienza, mi sono convinto che trattare male un tossico è un autogol oltre che una cattiveria».
Una volta la cocaina era la droga dei ricchi. Oggi?
Oggi la droga dei ricchi non c’è. La cocaina è scesa nelle strade. Si fanno pure i muratori prima di lavorare, per sopportare meglio la giornata. Noi da molti anni abbiamo denunciato che la cocaina è passata dai salotti bene, dove è sempre esistita, al consumo da parte dei “proletari”, e in questo passaggio si è un po’ contaminata, nel senso che viene usata anche per via endovenosa e quindi con effetti ancora più disastrosi. L’opinione pubblica non si rende conto quanto è grave il fenomeno della droga nel mondo perché lo rimuove. Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere».
Non vuole vedere perché parla di un disagio della società? Mentre la società cerca sempre un capro espiatorio?
«Certamente».
Dopo Villa Maraini quale sarà la prossima sfida di Massimo Barra?
«Diffondere in tutto il mondo la humanitarian policy drugs e il contiuum of care, politica umanitaria sulle droghe e continuità delle cure. Sono due concetti ancora agli albori e in cui serve un’azione in profondità, in cui io cerco di utilizzare il potere della Croce Rossa ance se la Croce Rossa nel mondo ha al suo interno lo stigma».
Davanti ai suoi occhi sono passati 50mila drogati. Si può stare su questa frontiera del dolore senza provare empatia per gli altri?
«No, ma questa è una cosa che è venuta man mano, imparando dai tossici. D’altra parte un medico che non ama i suoi pazienti non può giocare un ruolo».
di Giampiero Cazzato
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