Uno stimolo per il governo del cambiamento, un invito a tutelare i presidi strategici dell'Italia e a mettere in atto politiche industriali di ampio respiro per il rilancio del Paese, che rischia di vedere fortemente sminuito il patrimonio industriale costruito in anni, dalle telecomunicazioni alla siderurgia, dalla chimica all'alta tecnologia al petrolio e al gas metano che hanno consentito all'Italia di essere tra le prime cinque potenze industriali del mondo. E poi le privatizzazioni che hanno finito per trasferire o sminuire gravemente settori in cui eravamo grandi a livello internazionale, una smobilitazione in cambio di immediati guadagni con una forte diminuzione in termini di ricchezza pubblica, tutela e sviluppo dell'occupazione. Di questo e altro abbiamo parlato con Vincenzo Sanasi D'Arpe, docente di diritto dell'economia, studioso e sostenitore "da sempre" dell'intervento dello stato nel sistema produttivo, tra i massimi esperti italiani nella gestione della crisi e nel risanamento di impresa. Ha tra l'altro realizzato il risanamento di un grande gruppo industriale multinazionale in crisi con il salvataggio di migliaia di posti di lavoro, a condizioni eccezionali e che ebbe all'epoca sia il plauso di Fiat, principale committente della società, che dalle parti sindacali. La sua monografia "L'amministrazione straordinaria dei grandi gruppi in crisi: lineamenti giuridici" è stato un riferimento in materia il cui percorso argomentativo è stato ripreso dai giudici della Corte costituzionale per la sentenza sulle azioni revocatorie intentate da Parmalat in amministrazione straordinaria.
Professor Sanasi D'Arpe, ci spieghi il perché del suo appello sullo stato di alcuni settori industriali strategici del Paese
«Vorrei partire da una vicenda che ritengo uno spunto ideale per riassumere quanto intendo esprimere. Come è noto Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri, ha trattato l'acquisizione dei cantieri navali della coreana Stx. Una volta eletto Emmanuel Macron, ha bloccato l'operazione e rivisto gli accordi con l'azienda pubblica italiana, dando giustamente un'impronta di politica industriale del suo Paese. La nuova intesa prevede che circa il 34% della società faccia capo al governo francese, il 50% a Fincantieri e la restante componente alla società francese nel settore dei cantieri navali Naval Group, che ha al suo interno tra gli azionisti anche il colosso della tecnologia Thales, rivale nel settore di Finmeccanica. Per consentire a Fincantieri di detenere il 51% e quindi il controllo formale della società, il governo francese ha poi ceduto in prestito, sottolineo in prestito, a Fincantieri un 1% per una durata di 12 anni»
Da questo spunto di riflessione cosa si può estrapolare?
«A mio avviso da questa vicenda emergono almeno tre riflessioni importanti che il governo del cambiamento dovrebbe tenere in forte considerazione. È importante che l'esecutivo vigili sui settori industriali strategici ed abbia di conseguenza una politica industriale che coniughi la creazione di valore per l'impresa con la tutela e auspicabilmente la crescita dell'occupazione. Sarebbe auspicabile nell'esempio specifico un'alleanza tra Fincantieri e Finmeccanica, punta di diamante nella difesa e nel settore dell'alta tecnologia»
Secondo lei quindi l'Italia pecca nel valorizzare e difendere i suoi settori strategici?
«Qualche anno fa i francesi affermavano che l'Italia avesse una basso indice di penetrabilità bancaria, eppure poco dopo gli abbiamo permesso di comprare la Banca Nazionale del Lavoro, uno degli istituti bancari principali del Paese. Non credo, come dimostrato anche dal caso di una grande impresa italiana, che si possa parlare esattamente di criteri di reciprocità»
Parlando di privatizzazioni, secondo lei hanno portato benefici o meno nel lungo periodo?
«Sarebbe molto importante un'attenta riflessione sul fenomeno delle privatizzazioni. Sono di tutta evidenza i casi più rilevanti degli ultimi anni, ad esempio la vicenda Telecom, che era un gigante delle telecomunicazioni, specie se si fa un confronto con ciò che era all'epoca Vodafone, e che difficilmente, se non mai più, tornerà ad essere l'azienda che è stata. Vi è poi il caso di Autostrade: definita "la gallina dalle uova d'oro" del gruppo Iri. La costituzione di questa società da parte dello Stato con il gruppo Italstat costituì un grande sforzo e richiese all'epoca grandi investimenti e lo Stato dovette fare grandi concessioni per convincere i grandi gruppi privati del Paese a partecipare all'investimento. La loro privatizzazione non può definirsi esattamente un'operazione di lungo respiro per fare, come si suol dire, cassa»
Lei teme dunque una sorte non esaltante anche per Finmeccanica?
«Ritengo che sia in una fase non tra le più facili della sua storia gloriosa e dovrebbe invece essere assolutamente valorizzata per ciò che ha rappresentato, rappresenta e ancora può rappresentare a livello internazionale nell'ambito dell'alta tecnologia e della difesa. Finmeccanica è sempre stata una delle nostre aziende di maggior prestigio ma oggi se si guarda al dato dei ricavi, ha numeri inferiori rispetto al 2010, un dato negativo che deve essere motivo di attenzione. Anche l'ambito di punta dell'azienda, quello dell'elicotteristica, risente sul piano degli investimenti. Ripeto che l'unione tra Finmeccanica e Fincantieri consentirebbe la nascita di un grande polo della Difesa a livello internazionale»
Come si può ovviare ad errori simili in ottica futura?
«Emerge la necessità di una costante attenzione da parte del governo sui settori strategici ed una presenza vigile e organizzata nel settore pubblico dell'economia. Solo con una presenza organizzata e una costante attenzione da parte del governo nei settori strategici, anche laddove richiedessero degli investimenti, si può rilanciare il nostro sistema produttivo, che tanto ha contribuito in termini di sviluppo industriale. Il sistema delle partecipazioni statali che attraverso i cd enti di gestione entrava nel sistema produttivo non pubblicizzando ma al contrario privatizzando (da un punto di vista giuridico) le società possedute, costituiva un assetto giuridico organizzativo ammirato a livello internazionale. Il sistema delle partecipazioni statali dette poi adito a disfunzioni e patologie e certamente doveva essere razionalizzato, ciò però non significa a mio avviso che lo Stato non debba conservare una presenza organizzata e significativa nel sistema economico come stimolo per la crescita anche dell'impresa privata e per l'occupazione, specie con riferimento alle aree più deboli del Paese»
Cosa si augura dunque per il futuro del settore industriale italiano?
«Ripeto che da parte del governo ci sia quella regia e quell'attenzione nella tutela dei settori strategici e delle grandi aziende italiane che tanto hanno significato nel passato. Le nostre grandi eccellenze sono naturalmente parte significativa del tessuto economico del Paese e anche da esse dipendono la capacità di produrre ricchezza e tutelare i livelli occupazionali. Occorre in definitiva una nuova visione e una nuova politica industriale per rilanciare le nostre grandi aziende pubbliche a livello internazionale»
Esiste un esempio di azienda e di figura che sintetizzi il suo pensiero?
«L'Ente nazionale idrocarburi e il suo fondatore Enrico Mattei, uomo con una grande visione della funzione economica e sociale dell'impresa, che nel 1953, con il supporto del governo De Gasperi, in realtà faticosamente ottenuto, da commissario liquidatore dell'Agip creò in condizioni particolarmente avventurose l'Eni. Definito il "petroliere senza petrolio" ha poi dato origine a quella che è oggi la ventiduesima azienda nel mondo per fatturato che ha costituito grande fonte di ricchezza e occupazione per il nostro Paese. A proposito delle condizioni avventurose nelle quali fu creata questa azienda le offro un aneddoto noto a pochi: quando Enrico Mattei, dopo aver faticosamente convinto il capo del governo Alcide De Gasperi a costituire l'ente nazionale idrocarburi anziché liquidare l'Agip, si recò dal "banchiere letterato" Raffaele Mattioli, capo e rifondatore della Banca Commerciale Italiana, fondatore di Mediobanca e padre politico di Enrico Cuccia, chiese un prestito di cento milioni per costituire l'Eni. Mattioli espresse il suo entusiasmo sia con riferimento al progetto che alla figura che lo esprimeva, ma disse di essere pur sempre un banchiere e di avere quindi bisogno di garanzie. Mattei, già deputato, commissario liquidatore dell'Agip e agiato industriale nel campo delle cererie e dei grassi dette in garanzia i suoi beni personali.»
di Alessandro Leproux
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