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Primarie del PD, la ‘sindrome Veltroni’ per Zingaretti e le manovre dei renziani per Martina



Nell’antico (e, un tempo, glorioso) mondo del Pci-Pds-Ds si chiamava ‘sindrome di Veltroni’. Nel Pd attuale si chiama già, invece, ‘sindrome di Zingaretti’. Infatti, c’è un rischio in vista delle primarie del Pd (in realtà sono due, come vedremo). Il primo rischio sta venendo fuori in queste ore e riguarda, soprattutto, la vittoria di Zingaretti che non solo gli ‘zingarettiani’ – corroborati da molti sondaggi usciti in questi giorni – danno praticamente per cosa già fatta e che ‘capo ha’. Infatti, da un lato le aree politiche che appoggiano il governatore del Lazio sono tante, e tutte piuttosto ‘robuste’ politicamente: Area dem di Dario Franceschini, le due componenti interne della minoranza di sinistra del Pd (Sinistra dem di Gianni Cuperlo, che ha sciolto le sue ultime riserve e riflessioni l’altro ieri, e Dems di Andrea Orlando, convinto dal primo giorno della candidatura di ‘Zinga’) ma anche molti altri pezzi sparsi della galassia che sta fuori dal Pd, a sinistra (la rete di Laura Boldrini ‘Futura’, di fatto l’intera Mdp di Speranza e Bersani, etc.) c0me alla sua ‘destra’ (la rete della comunità di Sant’Egidio che si è ritrovata sotto le bandiere del raggruppamento ‘Italia solidale’, tutti cattolici-sociali già da tempo impegnati in politica, ma anche pezzi dell’ex Idv, guidati da Formisano, pezzi di ex mondo gentiloniano operanti su Roma, gli stessi Gentiloni e Zanda).


Dall’altro, Zingaretti – per la nettezza e chiarezza delle sue proposte (riunificare tutta la sinistra, da Bersani e D’Alema fino al mondo moderato cattolico e aprire un dialogo e un’interlocuzione coi 5Stelle in vista di un possibile nuovo governo sono i due suoi veri obiettivi, al di là delle poco convinte smentite) – si fa ‘capire’ molto più facilmente dall’elettorato del Pd, sbandato e abbacchiato da vari mesi, rispetto alle proposte che avanzano i suoi concorrenti. Maurizio Martina, che corre in sostanziale tandem con Matteo Richetti (ex renziano), ha raccolto quasi tutta l’eredità di truppe renziane che, prima atterrite dalla fuga del loro ex leader e poi rinfrancate dalla possibilità di ritrovare una ‘casa’ all’ombra di Martina, gli hanno portato in dote una discreta forza, specie nelle regioni del Mezzogiorno dove, tradizionalmente, le roccaforti renziane sono sempre state, per paradosso, più strutturate che nel centro-nord, dove però hanno peso e influenza ex renziani come i sindaci di importanti città (Milano, Bologna, Bergamo, Firenze, Pesaro) o ex renziani dal peso politico specifico come Delrio (Emilia) e Bonafé (Toscana).


Risultato, paradossale, di questa suddivisione delle spoglie del renzismo che fu (in fondo, anche l’area di Gentiloni e Zanda, oggi concentrata su Zingaretti, era dalla parte di Renzi e renziani doc erano i Giovani turchi, oggi tutti con Martina), potrebbe essere questo: Martina vince il primo giro, all’interno delle primarie, quello del voto tra gli iscritti (le Convenzioni provinciali si terranno a gennaio e a fine mese se ne saprà l’esito a livello regionale e nazionale), Zingaretti il secondo, quello delle primarie aperte. Un esito e una prospettiva che ‘Zinga’ teme molto. Il ricordo va, infatti, con la memoria a quando – correva l’anno 1994 – l’allora Pds si trovò davanti a un bivio: eleggere nuovo segretario, dopo le dimissioni di Occhetto, causate dalla sconfitta elettorale subita da Berlusconi alle politiche, Walter Veltroni, che era risultato ‘primo’ nella consultazione della base di allora (segretari di federazione e circoli, allora passati alla storia come ‘popolo dei fax’), o Massimo D’Alema che aveva ricevuto la maggioranza dei voti all’interno del Consiglio nazionale, il ‘parlamentino’ dell’allora Pds (oggi sarebbe la Direzione)? Prevalse D’Alema, come si sa e, di fatto, il voto dell’Apparato batté quello di base.


Oggi sarebbe possibile uno scenario del genere? Difficile, ma è anche vero che, nella storia del Pd, chi ha vinto il primo giro, quello tra gli iscritti, ha poi vinto – sempre – anche il secondo giro, quello più largo, tra iscritti, elettori, cittadini. Dunque, se Martina vincerà il primo turno sarà avvantaggiato anche al secondo? Difficile. Molto più facile che Martina vinca il primo turno e Zinga il ballottaggio. Ma con quale percentuale bisogna vincere? E qui scatta il secondo rischio nel Pd. Rischjo che è, invece, già più noto ‘ai più’ (si fa per dire: del congresso del Pd non importa praticamente più a nessuno, neppure a molta parte dei dirigenti dem…): se nessuno dei due o tre contendenti che, dopo il primo giro di consultazione tra gli iscritti al partito, si affronteranno nelle primarie ‘aperte’ raggiungerà il 50,1%, la decisione su chi sarà il prossimo segretario del Pd sarà affidata – e sarebbe, peraltro, la prima volta, in dieci anni di storia del Pd – all’Assemblea nazionale convocata per la settimana successiva al 3 marzo 2019, giorno delle primarie. Infatti, ‘grazie’ o ‘per colpa’ dello Statuto dem (autori due menti raffinate quanto arzigogolate: il politologo Salvatore Vassallo e il costituzionalista Stefano Ceccanti), l’elezione del leader del Pd non è un’elezione ‘diretta’ (il primo che arriva nel voto popolare vince), ma un’elezione ‘indiretta’, come quella delle presidenziali degli Usa (un voto che raccolga la maggioranza dei delegati al Congresso deve confermare il voto popolare, altrimenti questo non è valido).


Quindi, in soldoni, se nessuno dei due candidati oggi più quotati (Nicola Zingaretti e Maurizio Martina) otterrà la maggioranza assoluta nel voto popolare (prima tra gli iscritti e poi tra tutti gli elettori) se la deve conquistare, sudando freddo, in seno all’Assemblea nazionale dove votano i ‘delegati’ delle mozioni. I quali delegati (mille il numero di quelli eletti contestualmente alle primarie) possono essere eletti – con un sistema di calcolo proporzionale complicatissimo (il sistema d’Hondt che si usava nel proporzionale della Prima Repubblica…) su una o più liste in appoggio e collegate a ognuno dei diversi candidati (alle primarie, stavolta, corrono in sei). Ma i delegati da un lato possono ‘cambiare voto’ (e cavallo) liberamente, rispetto alla lista con cui sono stati eletti e, dall’altro, rappresentano, dentro l’Assemblea, anche se in numero inferiore, perché proporzionale, le liste e i candidati collegate al terzo e/o quarto meglio piazzato e non solo, cioè, il primo e/o il secondo arrivato nelle primarie aperte, purché ognuno di essi abbia raggiunto il 5% dei consensi nel voto degli iscritti.


Morale: all’interno dell’Assemblea nazionale può succedere davvero di tutto. I delegati legati al terzo candidato possono mettersi d’accordo con il secondo meglio piazzato alle primarie aperte ed eleggere quest’ultimo, o convergere su un altro nome, coalizzandosi contro il candidato arrivato primo alle primarie. Esempio: Zingaretti prende il 49,1% dei consensi alle primarie aperte, Martina il 40,1%, il ticket Giachetti-Ascani il 9,9%: il secondo e il terzo si alleano e dato che 40,1% più 9,9% fa 51% soffiano la vittoria, al fotofinish (cioè in Assemblea) a Zinga cui la vittoria (relativa) nel voto delle primarie aperte non è servito a nulla. Naturalmente, è solo un caso di scuola: cambiando l’ordine dei fattori (e, cioè, dei candidati) il prodotto non cambia. Altro esempio: Martina arriva al 42%, Zingaretti si ferma al 41%, ma Francesco Boccia arriva terzo con l’11% e il ticket Giachetti-Ascani solo quarto con il 7%. La somma di 41% (Zingaretti) più 12% (Boccia) fa 52% e batte sul filo di lana il 49% di Martina (42) e Giachetti (7). Vi gira la testa? E’ normale, ma ”il catalogo è questo” e le regole del Pd anche…


di Ettore Maria Colombo

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