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Primarie Pd: Zingaretti stravince, annichiliti Martina e Giachetti; come sarà il suo ‘nuovo’ Pd



Una vittoria ‘larga’, come il nuovo ‘campo’ che vuole far nascere nel centrosinistra. Una vittoria schiacciante, nei numeri e nella geografia ‘politica’ che esce dal voto. Una vittoria ‘corale’, per come è lo spirito stesso del candidato. E una vittoria ‘unanime’, subito riconosciuta, nella notte, dai suoi sfidanti (Martina e Giachetti) e dallo stesso Renzi.

I numeri, questa volta (come, va detto, anche nel passato) parlano chiaro. Secondo gli ultimi dati (causa la forte affluenza ai seggi, i dati definitivi tardano ad arrivare), parlano chiaro. Nicola Zingaretti ha vinto le primarie del Pd con una percentuale che sta tra il 67 e il 69% dei consensi, anche se ancora non sono completi i risultati dello scrutinio nel sud Italia- Lo scrutinio, infatti, è ancora in corso e solo oggi pomeriggio si riunirà la commissione Congresso del Pd per i dati ufficiali. Le percentuali variano, anche se di poco, in base ai candidati: gli ultimi dati, resi noti in nottata da Roberto Giachetti (il che è cosa assai curiosa), davano Zingaretti al 66,5%, Martina al 17% e Giachetti 16,5%.


Un risultato, dunque, anche inatteso e oltre le più aspettative più ottimistiche, quello delle primarie del Pd, specie sul lato da tutti più temuto, la partecipazione. Infatti, se, anche in maniera tattica, alla vigilia l’asticella era stata fissata al milione di partecipanti, in pochi al Nazareno avrebbero scommesso sul fatto che l’affluenza alle primarie avrebbe facilmente superato il milione e mezzo di partecipanti per insidiare il 1,8 milioni del 2017. In nottata, il presidente della commissione congresso, Gianni Dal Moro, ha confermato che l'affluenza ha superato di certo il milione e 700mila votanti. Per il Pd, reduce dalla batosta delle elezioni del 4 marzo, non è affatto poco. Il Comitato Zingaretti si era sbilanciato già in serata: “Abbiamo superato il dato dell'affluenza alle primare del 2017, siamo oltre il milione e ottocentomila elettori”. In percentuale, il neo-segretario viaggia tra il 65 e il 70%. La soglia del 50%, quella che avrebbe rimandato l'elezione all'Assemblea del 17 marzo, in pratica non è mai stata in discussione. Già dopo le prime 30mila schede, Zingaretti si è subito attestato sopra il 60%. Secondo i dati reali relativi al 10% dei votanti, gli unici ‘ufficiali’ diffusi nella notte dal Nazareno, Nicola Zingaretti si attesta al 63%, Maurizio Martina al 24,5%, Roberto Giachetti al 12,5%.


Per avere un riferimento immediato, nelle ultime due primarie Matteo Renzi era diventato segretario con poco meno del 70% nel 2017 e con quasi il 68% nel 2013. Zingaretti potrebbe non essere molto lontano da quei numeri. Con la suspense ridotta all’osso, i due contendenti si sono subito complimentati con Zingaretti per la vittoria. Prima Giachetti e subito dopo Martina. “Zingaretti è il nostro segretario, da oggi lavoriamo fianco a fianco con lui ad una nuova stagione - ha detto Martina - Il Pd è in buone mani, si apre una stagione di impegno per tutti noi”. Giachetti, da parte sua, ha sottolineato che “Siamo e restiamo nel Pd, faremo una battaglia di minoranza”. Tra i primi a complimentarsi c'è stato anche Matteo Renzi: “Quella di Nicola Zingaretti è una vittoria bella e netta. Adesso basta col fuoco amico: gli avversari politici non sono in casa ma al governo. Al segretario Zingaretti un grande in bocca al lupo. A Maurizio, Bobo e a tutti i volontari grazie. Viva la democrazia”, scrive su Twitter.


“Invito tutti gli italiani e le italiane: venite nel nostro partito. C’è bisogno di voi. Voltiamo pagina. Ognuno - dice Zingaretti dal palco nel suo primo discorso da segretario, quello che tiene, visibilmente emozionato, nella notte, dalla sede del suo comitato elettorale - con dentro il cuore e le proprie radici che non dobbiamo rinnegare. Venite con dentro il cuore le vostre radici raccontando con orgoglio le stagioni più belle della vostra storia: l’Ulivo di Prodi, la nascita del Pd, l’impegno di tutti i nostri governi che ci hanno salvati dalla bancarotta. Io farò di tutto per essere all'altezza. E essere all’altezza vorrà dire sapere ascoltare e sapere decidere. Apriremo una nuova fase costituente per un nuovo Pd che dovrà avere dei segnali chiari per far contare di più le persone”. Un Pd che, scandisce Zingaretti, deve sapere offrire “un'altra strada rispetto al governo gialloverde. Da oggi noi non vogliamo solo contestare l’avversario, o solo fare opposizione, ma siamo qui convinti di poter mettere in campo idee migliori per gli italiani rispetto a questo governo illiberale e pericoloso”. Dall'ambiente, alla sicurezza, al lavoro, Zingaretti dedica la vittoria a Greta, la ragazza svedese che si batte per “la salvezza del pianeta”, ai “5 milioni di poveri”, ai giovani disoccupati. E a Matteo Salvini che parla di voti dimezzati alle primarie in 10 anni, Zingaretti ribatte lasciando per un attimo i soliti toni soft: “Salvini? Si vede che gli rode, non si aspettava quasi due milioni di persone... Quando Salvini fa queste dichiarazioni sono sereno”. Poco dopo le 11 Zingaretti aveva lasciato il comitato diretto a casa, che sta nel quartiere Prati di Roma. Chiude la giornata partita dal voto al gazebo di piazza Mazzini e dal pranzo al mare a Maccarese con la famiglia e il fratello Luca, famoso attore e interprete del commissario Montalbano. Da oggi comincia la sua sfida in un Pd in cui i sostenitori di Renzi si sono rivelati minoranza ai gazebo, viste le percentuali di Martina e Giachetti, ma che restano forti nel partito. A partire dai gruppi parlamentari che erano e sono a trazione renziana.


Ma se sarà il caso di analizzare, più avanti, i risultati nel loro complesso, per capire l’entità della vittoria, è meglio dire subito quali saranno le prime mosse di Zingaretti.

L’esordio del nuovo segretario, infatti, con una mossa spiazzante, sarà a Torino, il 15 marzo, quando sarà in piazza con gli ambientalisti, ma anche per ribadire il suo Sì – per nulla scontato, peraltro – alla costruzione della Tav. Poi, due diligence sui conti Pd (l’attuale tesoriere, Francesco Bonifazi, renzianissimo, verrà licenziato, a subentrargli sarà Antonio Misiani, che già aveva ricoperto quell’incarico nella segreteria Bersani), incontri periodici con il sindacato, a partire – ovviamente – dalla Cgil. E insediamento al Nazareno solo dopo l’Assemblea nazionale che, il 17 marzo, lo incoronerà segretario formalmente. Infine, naturalmente, testa tutta sulle elezioni europee del 26 maggio. Zingaretti aspetterà di avere in mano i pieni poteri, poi inizierà un giro di incontri con diverse formazioni politiche che gravitano nell’orbita del centrosinistra (+Europa di Della Vedova e Bonino, i Verdi, Italia Bene Comune del sindaco di Parma Pizzarotti) per dare vita a quel ‘listone’, alle Europee, che dovrebbe, appunto, allargare il ‘campo’ del Pd a tutto il centrosinistra. Tra i candidati alle prossime elezioni europee, si parla insistentemente di un posto, già prenotato, per l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, come capolista del NordOvest, di un altro a una donna, Ilaria Cucchi, e naturalmente di un posto, sempre da capolista, all’ex ministro Carlo Calenda, ideatore del manifesto ‘Siamo Europei’, che dovrebbe avere una candidatura alla guida delle liste del Pd nel NordEst. Infine, la segreteria. Dati i risultati, non sarà ‘unitaria’ (non vi sarà, cioè, alcun posto, tantomeno da vicesegretario, per Maurizio Martina), ma nascerà tutta con esponenti delle varie correnti (Orlando, Cuperlo, Franceschini, Gentiloni) che hanno appoggiato, dall’inizio, la corsa di Zingaretti.


Per quanto riguarda i gruppi parlamentari, che formalmente rimetteranno i loro incarichi nelle mani del segretario, non vi sarà, per ora, almeno fino all’estate, alcun cambiamento. Graziano Delrio resterà al suo posto di capogruppo alla Camera e anche il renzianissimo Andrea Marcucci manterrà la sua postazione di capogruppo al Senato. Equilibri difficili – quelli dei gruppi parlamentari – dove le truppe di ‘Zinga’ sono esigue (le liste per le Politiche le aveva fatte Renzi), circa una quarantina di parlamentari in tutto, e dove il ‘nocciolo duro’ dei renziani è ancora difficile da scalfire. Come presidente del partito verrà sicuramente indicato l’ex premier, Paolo Gentiloni, figura sobria, rassicurante, ancora molto forte nei sondaggi e capace di aprire nuovi dialoghi e interlocuzioni con i moderati e il centro, se mai riuscissero. Come vicesegretario è difficile che il vero braccio destro di Zingaretti, Massimiliano Smeriglio, oggi vicepresidente in Regione Lazio, venga subito promosso a tale incarico, anche se di certo entrerà nella nuova segreteria, ma non è detto che non lo diventi in futuro. Dipenderà anche molto da quello che succederà, appunto, alla Pisana, in Regione. Per ora, Zingaretti non ha alcuna intenzione di rinunciare al ‘doppio incarico’, ma la maggioranza, in seno al consiglio regionale, si regge su due voti di transfughi del centrodestra e, presto o tardi, il Lazio potrebbe andare a nuove elezioni. Inoltre, per ora, e almeno nei prossimi mesi, Zingaretti non darà seguito alle due principali accuse che, per l’intera campagna elettorale, gli sono state mosse: voler far rientrare gli “scappati di casa” (copyright di Giachetti), cioè gli scissionisti di Mdp-LeU (per loro non ci saranno posti neppure dentro il ‘listone’ alle Europee) e voler aprire un ‘dialogo’, in vista di un nuovo governo, con i 5Stelle. Zingaretti ha tanti difetti, ma non è stupido. Avanzare queste due mosse, così presto, sarebbe un boomerang. Attenderà gli eventi e dice a chiare lettere che, se il governo Conte e la maggioranza gialloverde dovessero entrare in crisi, “la strada maestra sono le elezioni anticipate”. Poi, chi vivrà vedrà. Un’altra cosa è certa. Nel Pd stanno per tornare alcuni padri nobili che se ne erano, negli anni, allontanati. Romano Prodi ed Enrico Letta, in testa a tutti, non solo hanno detto, ormai in chiaro, di aver votato Zingaretti, ma anche che sono pronti, se necessario, a rifarsi la tessera. Operazioni di immagine, per ora, sia chiaro, ma utili a far vedere che il Pd torna a essere ‘la casa’ del centrosinistra, una sorta di ‘Ulivo 2.0’ e non, però, di ‘Unione 2.0’.


Cosa farà, invece, Matteo Renzi? Per ora, nulla. Il risultato, sia in termini di affluenza (alta) che di sconfitta (forte) delle due mozioni Martina e Giachetti, zeppe di renziani ‘morbidi’ (la prima) e di renziani ‘duri e puri’ (la seconda), non permette di fare altro. Renzi resterà alla finestra, sicuro di poter impedire, con la manciata di senatori al suo fianco, ogni ‘tentazione’ di Zingaretti di aprire ai 5Stelle. Se poi, quando mai saranno (nel 2020? O subito dopo l’estate?) arriveranno nuove elezioni politiche, Renzi dovrà decidere se restare nel Pd, in una posizione di estrema minoranza, o se prepararsi al ‘grande salto’, dando vita a una nuova formazione politica. Più un ‘movimento’, che un partito, basato sulla rete che i suoi fedelissimi Gozi e Scalfarotto stanno creando da mesi, in giro per l’Italia, grazie ai comitati ‘Ritorno al futuro – Italia 2020’, un nome che è già, di fatto, tutto un programma. Peraltro, la separazione con il Pd di Zingaretti, tornato a fare il partito ‘di sinistra’, potrebbe non essere neppure drammatica o di rottura, ma una separazione ‘consensuale’ seguendo uno schema antico ma che potrebbe funzionare, quello di Ds e Margherita. In fondo, le separazioni consensuali, sono sempre le migliori.


di Ettore Maria Colombo

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