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Rai e servizio pubblico


di Michele Lo Foco

C’è una forma di amnesia quando si parla della nostra azienda statale monopolista dello spettacolo e questa sindrome colpisce non solo parte della politica ma quasi tutti coloro che dell’azienda pubblica si occupano e che si scordano che scopo primario dell’istituzione è dare un servizio ai cittadini.

E’ pertanto necessario ricordare la natura del servizio, che consiste nel portare all’attenzione degli obbligati cittadini sia le notizie riguardanti la nazione, cioè politica, ambiente, fatti, circostanze, motivazioni, incidenti ed altro, sia argomenti che possano contribuire ad una crescita culturale del paese, anche se porti in modo leggero.

La parola intrattenimento non va intesa nel senso letterario di trattenere le persone davanti allo schermo, ma dovrebbe costituire una modalità temporale di riposo costruttivo e compensativo nell’ambito della giornata.

Quando la Rai era monopolio assoluto, il servizio ai cittadini era un lavoro di grande responsabilità, non consentiva errori o deviazioni, mentre oggi questo compito viene alleviato dalla presenza di altre emittenti, una in particolare, che hanno anch’esse come riferimento il cittadino nazionale e la sua attenzione, oltre a numerose piattaforme.

Ma queste altre emittenti, private e commerciali, non hanno un impegno di servizio ai cittadini, bensì considerano le persone “clienti”, che se soddisfatti della merce, tornano sulla rete pagando un tributo di sopportazione della pubblicità, che è poi il motore economico di tutto.

Pertanto, al di là di una generica forma di garbo estetico, che riguarda tutti, solo la Rai dovrebbe avere un preciso impegno deontologico di interpretare lo Stato sullo schermo.

E qui si manifesta l’amnesia: i programmi non sono più tarati sull’esigenza di servire i cittadini, ma servono altri interessi, molto più personali, in alcuni casi scandalosi, con un processo di mitizzazione dei dirigenti e dei presentatori, unito ad una valorizzazione di elementi miserabili, che non solo non rende alcun servizio, ma al contrario incrementa le peggiori pulsioni.

Tolti i telegiornali, che per loro natura sono gestiti da professionisti e che in gran parte non possono debordare dal loro compito, la politica non ha intuito che i programmi sono diventati o lo strumento di una personalizzazione pagata in modo esasperato, o la realizzazione di testi e idee di infimo livello, o la copia di programmi di successo esteri o di altre emittenti, o l’esibizione del nulla.

La divulgazione estrema del sistema “ospiti”, ormai diventati il sale di quasi tutte le trasmissioni, ha creato la possibilità di inventare palinsesti che non sono altro che un vociare confuso di opinioni di nessun pregio, esposte da personaggi di nessun pregio che vengono pagati per emettere suoni, e presentate da individui che di capacità hanno solo il dito per indicare prima un ospite e poi un altro.

Non c’è bisogno di sottolineare il disastro di Rai 2, uscita ormai dai telecomandi di quasi tutti, che specializzata in prodotti trash, condotti mirabilmente da ex ballerini o da ex bambolone sexy non più sexy, o da personaggi di una cultura pettegola e modesta, ha talmente travisato il ruolo di servizio pubblico da fare a gara con emittenti regionali o cittadine.

Né può essere nascosto ulteriormente lo stipendio di giornalisti di successo, che, come si dice nella vita di tutti i giorni, rappresentano un vero e proprio schiaffo alla miseria ed un esempio di come si può essere disonesti anche ufficialmente.

In tutti questi casi, ed in altri, la parola servizio pubblico è un lontano ricordo, perché mentre Gerry Scotti con “Caduta libera” e Flavio Insinna con il programma “L’eredità”, pur in un clima di leggerezza, danno qualche informazione utile e tengono sveglia l’attenzione di signori e signore anziane, gran parte dell’intrattenimento sottrae tempo alla lettura di un buon libro.

Servizio pubblico non è correre dietro al “Grande fratello” o esaltare diatribe familiari e scandaletti di bassa natura, non è nemmeno gettare i soldi dei contribuenti in pellicole o fiction che nulla hanno di reale, approfittando della notorietà di visi e corpi, non è nemmeno gestire le fasce orarie seguendo le proprie pulsioni come fossero di unanime consenso, ma è lavorare seriamente, come facevano Brando Giordani, Angelo Guglielmi o Stefano Munafò, studiando i percorsi con autori coscienziosi ed esperti in modo da lasciare, come hanno lasciato, un patrimonio di format e di idee che ancora forniscono il principale servizio ai telespettatori.

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