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Rimpasto o elezioni? Salvini e Di Maio ci pensano, ma su entrambi grava un’incognita: Mattarella



1. A gennaio Savona (e Tria) potrebbero dimettersi.

L’evento più improbabile e imponderabile che possa succedere al governo gialloverde non è il naufragio – ormai scontato – della ‘non’ trattativa in corso tra il premier Conte e la commissione europea di Bruxelles. Quella ‘trattativa’, infatti, si sa già come andrà a finire: Juncker chiederà, stasera, ai margini dei lavori del Consiglio europeo, di ‘alleggerire’ la manovra del governo italiano e il premier, volente o nolente che sia, risponderà picche perché così gli hanno chiesto di dire e di fare i due contraenti del patto di governo gialloverde, Salvini e Di Maio. Neppure qualche altro ‘incidente’ parlamentare – come quello occorso in occasione della votazione alla Camera del dl anticorruzione (o dl “spazza-corrotti”, come lo chiama, pomposamente, il guardasigilli Bonafede), quando il governo è andato sotto – potrà far deflettere i due partiti, Lega e M5S, e i loro leader (Salvini e Di Maio, appunto) nella loro alleanza di governo. Sul dl anticorruzione – come pure sul dl Sicurezza, in discussione, sempre alla Camera, a partire da lunedì – verrà posta la fiducia e passerà, nonostante i reciproci mal di pancia delle due truppe parlamentari sui due provvedimenti (i leghisti per l’anticorruzione, i 5Stelle sul dl Sicurezza). Tanto meno – come pure qualcuno ha scritto – succederà che la manovra in deficit varata dal governo Conte possa essere bocciata (nel senso di ‘non firmata’) dal Quirinale. Mattarella firmerà la manovra (non farlo vorrebbe dire scatenare una tempesta finanziaria e monetaria sull’Italia ben peggiore di quella attuale), al massimo potrà eccepire su qualcuno dei decreti collegati. Anche se non è affatto secondario che, proprio tra questi, figurano il dl fiscale e, a stare agli ultimi intendimenti, le misure per introdurre sia il reddito di cittadinanza che quota cento sulle pensioni.


2. Savona ha cambiato linea e giudizi, Tria anche…

No, il vero problema che già angoscia, da alcune settimane, sia Salvini che Di Maio sono le possibili dimissioni – date motu proprio o istigate da uno dei due contraenti del patto – di alcuni ministri di peso. Il ministro agli Affari Europei, Paolo Savona, l’uomo che Mattarella in persona non volle che ricoprisse la carica di ministro dell’Economia per le sue note posizioni ‘no-Euro’, è infatti diventato tutt’altro da sé. Certo, ha smentito la ricostruzione del Corriere della Sera che lo vedeva a un passo dalle dimissioni - che arriveranno, magari a gennaio, una volta chiuso l’iter della manovra – ma Savona non ha mai smentito di aver cambiato idea, e in modo radicale, sia sulla manovra economica – la giudica, ormai, totalmente “insufficiente e insoddisfacente”, a causa della tempesta dello spread che si abbatte da mesi sull’Italia - che sulla necessità di tenere aperto il dialogo con la Ue, oltre che con la Bce (Draghi) e con BankItalia (Visco), tutti fili che i due vicepremier hanno invece, ormai, già spezzati. Insomma, Savona è sul punto di fare le valigie perché non condivide più nulla della politica economica del governo. Senza dire del fatto che gli altri suoi colleghi, da sempre ben più ‘europeisti’ di lui (Tria e Moavero Milanesi), su molti dossier aperti con la Ue non gli fanno toccare palla.

Il guaio è che anche Tria, il titolare dell’Economia, prima ha combattuto a spada tratta per imporre, nella manovra, un rapporto deficit/Pil molto più basso di quello scritto, invece, nella Legge di Stabilità (Tria voleva l’1,9%, ora è al 2,4%), poi si è accodato, in modo supino, alle richieste gialloverdi, ma anche lui – si è detto per settimane – è pronto a lasciare, sempre dopo aver chiuso, in Parlamento, la ex Finanziaria.


3. Di Maio punta a un ‘rimpastone’ di governo.

Perdere uno, se non due, ministri di peso dentro il governo (peraltro entrambi sostanzialmente voluti lì da Salvini), sarebbe già un colpo mortale alla stabilità dell’esecutivo. Ma Di Maio va dicendo ai suoi, da settimane, che “a gennaio dobbiamo procedere a un bel rimpasto di governo”. E così, la parola tabù per i grillini (‘rimpasto’), una parola che sa tanto di Prima Repubblica, torna a farsi largo forte. A Di Maio, in realtà, piacerebbe cogliere quell’occasione per sostituire “un paio di ministri che non si sono per niente dimostrati all’altezza del compito a loro affidato” dice, con tono grave, un’autorevole fonte pentastellata. Si tratta del ministro alla Salute, Giulia Grillo, ritenuta ‘inadeguata’ a ricoprire la titolarità di un ministero di spesa strategico, e – ovviamente – del ministro alle Infrastrutture, Toninelli, che ha inanellato gaffes e sfottò da fare tremare i polsi a tutti, fin dentro il Movimento, per la sua palese inadeguatezza.


4. Salvini vede le urne avvicinarsi a grandi passi…

Il ‘contro-guaio’ è che rimpastare tre o quattro ministri tutti insieme non è possibile. Il Capo dello Stato chiederebbe, come minimo, di aprire una formale crisi di governo e, di conseguenza, obbligherebbe i due contraenti dell’alleanza a riscrivere sia il loro patto di governo (il famoso ‘contratto’) che gli equilibri interni alla maggioranza tra i due partiti. E qui entra in gioco Salvini. Dicono fonti leghiste molto ben informate che il ministro dell’Interno voleva ‘far saltare’ il governo già dopo i primi ‘no’ di Di Maio sulle grandi opere (Tav, Tap, etc.) e che si è fermato solo perché sa bene che aprire una crisi di governo mentre si discute la manovra potrebbe causare una vera rovina economica per il Paese.

Inoltre, come si sa, Salvini legge tutti i giorni i sondaggi, capisce che la curva – sempre crescente – dei consensi a sé e al suo partito potrebbe, a un certo punto, arrestarsi, vuole quindi ‘capitalizzare’, nelle urne, quanto raccolto finora, sapendo che la sua ‘base sociale’, quella del Nord operoso e produttivo, non ne può già più del governo ‘gialloverde’ e che i suoi stessi terminali e sensori politici (industriali, artigiani, commercianti, ma anche la sua classe dirigente, a partire dai due suoi governatori delle regioni del Nord, Fontana e Zaia) non vede l’ora che lui ‘stacchi la spina’. Per tutte queste ragioni, cioè tutte insieme, il leader della Lega si è dato una dead line per valutare il da farsi: ‘dopo’ le regionali di gennaio e febbraio, in Abruzzo e Sardegna.


5. Ma a dare le carte resta Mattarella. Cosa farà?

Ma Salvini sa anche – e bene – che Mattarella è lì, placido e non arcigno, ma determinatissimo, a non offrire nessuna sponda al tentativo di correre subito alle elezioni. Ma la novità emersa in questi giorni, e registrata dal Foglio, è che anche Mattarella sta cambiando opinione. Dopo aver fatto un’importante apertura di credito ai 5Stelle e Di Maio sia durante la campagna elettorale che durante la crisi di governo (il Foglio la chiama “la linea Zampetti”, dal nome del potente segretario generale del Quirinale), Mattarella – dopo aver toccato con mano l’inconsistenza e l’incapacità dei pentastellati di rispettare i loro doveri e di non saper tenere a bada le loro ambizioni – starebbe per sposare la “linea Astori”, nome del consigliere alla comunicazione. ‘Linea’ Astori che non vede più come un tabù le elezioni anticipate, ma che pensa, anzi, che potrebbero risolvere molti guai. Certo, per un Capo dello Stato, sciogliere le Camere dopo appena un anno di vita, sarebbe comunque letta come una sconfitta, ma se Salvini salirà al Colle per certificare la rottura dell’alleanza di governo – ovviamente non adesso, ma a gennaio o a febbraio o anche più avanti – Mattarella non farebbe far altro che arrendersi all’evidenza. E una volta dimostrata l’impossibilità – che invece il leader di Forza Italia, Berlusconi, vagheggia così tanto da averne persino parlato, al Colle, pur di fronte a un Mattarella muto – di formare un’altra maggioranza con un asse trasversale tra partiti di centrodestra e ‘responsabili’ ex grillini che non vogliono andare a casa, si troverebbe costretto a sciogliere le Camere. Certo, resterebbe un problema non da poco.


6. Le tre possibili finestre elettorali del 2019.

‘Quando’ si potrebbe andare a votare. Le finestre elettorali sono, sostanzialmente, tre. La prima – e la più improbabile – vede un voto anticipato già a marzo-aprile (servono 60 giorni di tempo tra lo scioglimento delle Camere e il giorno del voto, al massimo si possono restringere a 45, non meno) ma è anche la più difficile. La seconda finestra elettorale coincide con le elezioni europee. Nessuna legge vieta – checché se ne dica, ma erroneamente – di abbinare elezioni europee ed elezioni politiche. Nel 1979 andò proprio così. I due sistemi elettorali sono diversi, ma al più si tratterebbe di un surplus di lavoro per presidenti e scrutatori di seggio. In questo modo, peraltro, si risparmierebbero soldi, grazie all’election day. Certo, ‘confondere’ due tipi di elezioni così diverse non sarebbe facile, ma tutto è possibile. Ergo, il 26 maggio, quando si terranno le Europee, si può votare. La terza data vede in campo un altro possibile abbinamento: quello delle elezioni amministrative, fissate a giugno 2019, con le Politiche. Anche qui, nessuna legge lo vieta e, anche in questo caso, si tratterebbe di un election day al risparmio.

Una sola cosa è certa. Se Salvini – e, ovviamente, Di Maio – andranno al Colle a dire “non ci sono problemi tra noi, al massimo ci serve di fare un piccolo rimpasto di governo…” Mattarella li metterà davanti a un’altra, difficile, scelta. “Se credete – sarà, a quel punto, il ragionamento del Quirinale – che potete andare avanti così, bene, anzi: sicuramente bene, ma se volete fare un rimpasto dovete aprire, formalmente, la crisi di governo. E, soprattutto, se volete andare avanti, ricordatevi una cosa: io non scioglierò mai le Camere a settembre o a ottobre, quando ci sarà da fare la nuova legge di Stabilità. Quindi, decidetevi: o andate avanti ancora, oppure si va a votare. Tertium non datur” dirà Mattarella, consigliato dai suoi consiglieri. Fantapolitica? Può darsi. Ma Salvini e Di Maio dovranno pensare bene alle loro prossime volte. Altrimenti potrebbero ritrovarsi costretti a una ‘coabitazione’ forzata e forzosa che, al confronto, quella tra Craxi e De Mita negli anni ’80, eran rose e viole.


di Ettore Maria Colombo

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