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ROMA CAPUT MUNDI


di Michele Lo Foco

Uno dei principali compiti della stampa e dei giornalisti dovrebbe essere quello di analizzare le notizie e la realtà cercando di andare al fondo dei fenomeni per spiegare ai lettori cause, retroscena, ed in sostanza verità.

Forse è chiedere troppo, ma quando i media si alleano con i responsabili delle vicende sociali, in sostanza mistificando o addomesticando la verità, allora è probabile si crei quella che può essere definita una “bolla”. – Cos’è una bolla? E’ un contenitore fragile al cui interno non c’è altro che aria e nessuna sostanza: la realtà si gonfia, diventa visibile e voluminosa, sembra, e non è, una realtà importante e solida ma rischia di scoppiare, lasciando gli inconsapevoli fruitori bagnati e contusi.

Con Cinecittà è successo più volte, quasi nello stesso modo, che la realtà di una azienda di modesta levatura, con un fatturato risibile per una realtà industriale, ma con un nome conosciuto e rispettato nel mondo, sia stata talmente “gonfiata” da divenire quasi un sinonimo di cinema e di italianità.

Roma Caput Mundi è infatti il titolo clamoroso di un articolo firmato da Gloria Satta, che ha il senso dell’indipendenza giornalistica e dell’approfondimento dei fatti di un palo della luce.

C’è un po’ di confusione strumentale tra i nomi che vengono citati nel pezzo del Messaggero: Denzel Washington, Jane Fonda, Daniel Craig, Charlize Theron i quali, se qualcuno non avesse ben compreso, non sono azionisti né dipendenti né in qualche modo stipendiati dal teatro di posa, ma semplicemente attori che vengono a recitare in Italia, aggiungo ben volentieri, e sono pagati profumatamente dai loro produttori, i quali, a loro volta, approfittano dell’Italia per saccheggiare il tax credit e diminuire di molto il costo del loro film straniero.

Forse questo esempio potrà chiarire il fenomeno: se sbocconcellate un dolce in terrazza, e le briciole cadono sul terreno, vedrete una moltitudine di formiche correre a recuperare il cibo, ognuna affannata per trasportare il pezzettino più interessante. Ecco, il dolce è il tax credit, chi lo sbocconcella è lo Stato e le formiche sono i produttori, la gran parte proveniente dai paesi lontani.


Non è vero che i prodotti stranieri di cui si parla nell’articolo sono coproduzioni: sembrano coproduzioni ma sono prevalentemente produzioni esecutive, realizzate da società complici spesso create appositamente per gestire il tax credit. Le maestranze lavorano, questo è indubbio, ma quella che si sta gonfiando è in realtà una bolla perché non è vero che Roma è caput cinema ma esattamente il contrario: Roma non conta nulla.

E non c’è bisogno di grandi riflessioni per capirlo: i prodotti italiani non incassano al cinema, gli attori italiani non sono conosciuti nemmeno in Svizzera, le piattaforme inseriscono nei loro palinsesti i film del nostro paese giusto per dovere di ospitalità, non vendiamo quasi nulla all’estero e se qualche prodotto funziona non è merito delle strutture, ma del caso o di qualche produttore che ama ancora fare buon cinema.

Perché la storica giornalista non chiede che fine ha fatto la partecipazione di Cinecittà nel “parco a tema” più desolato della terra? E dove è finito l’amianto? E’ vero che società italiane devono chiedere a società straniere l’utilizzo dei teatri? Qual è il core business dell’Istituto Luce? Come sta funzionando il museo? E chi sta sfruttando illecitamente e gratuitamente il marchio Cinecittà? E’ vero che Abete ha lasciato milioni di debiti fiscali? Quanto era il fatturato di Cinecittà nel 1980? Come mai sono state effettuate almeno tre fusioni intercompany?

Se vogliamo sintetizzare, la storia di Cinecittà è realmente una fiction, ma i produttori sono i singoli cittadini, a loro insaputa gestori di un teatro di posa.


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