Diciamola tutta, 79 mila militanti non sono una percentuale su cui si può ironizzare facilmente. Diciamola tutta, gli alti lai sulla piattaforma privata che decide i destini della democrazia italiana fanno un po’ sorridere se solo si pensa che anche i cari vecchi partiti politici sono associazioni prive di personalità giuridica che per lungo tempo sono stati esentati da ogni forma di regolazione. Diciamola tutta, anche altrove, in ogni altrove fatto di sigle, tessere, bandiere e sezioni (ancorché virtuali), l’iscritto è generalmente portato a fare propria la linea del partito. Nulla di nuovo sotto il cielo. Ve lo ricordate il comunista “il partito ha sempre ragione”?. Che torna, in forme e contenuti ovviamente diversissimi, nell’ex movimento del vaffa. Da navigato ex democristiano Gianfranco Rotondi non si unisce al coro di chi si strappa le vesti per l’offesa alla democrazia: «Il voto su Rousseau è una modalità interna di ratifica, alcuni partiti hanno il voto in direzione, altri l'ufficio di presidenza...basta puzza sotto il naso coi Cinquestelle, sono il partito di maggioranza del Parlamento e ci si deve fare i conti», dice il vicepresidente del gruppo Fi alla Camera.
Mai esito fu più scontato di quello uscito dai terminali della Casaleggio. Alle ore 18 la votazione si è chiusa. Rien va plus. 79.634 iscritti hanno partecipato al voto elettronico: 63.146 voti (il 79,3%) sono andati al Sì al Conte bis, 16.488 voti (20,7%) al No. Esito largamente prevedibile. In un colpo solo si è consumato il divorzio da Salvini e il matrimonio con Zingaretti. Ed è qui a ben vedere, in questa rapidità, in questo giro di valzer, che c’è il tarlo o, meglio, il grande inganno, della vicenda. Perché una operazione di questa portata, che cambia radicalmente collocazione e campo del Movimento, avrebbe meritato non solo il voto su Rousseau, ma una sorta di Bad Godesberg. Che per chi non lo sapesse è il luogo in cui si svolse nel 1959 il congresso straordinario del partito socialdemocratico tedesco, la Spd, che segnò la rottura definitiva con il marxismo. Via il capovolgimento rivoluzionario della società e accettazione dell’economia di mercato. Fu un congresso intenso per alcuni versi drammatico, I nomi dei mostri sacri del socialismo tedesco, quelli di Marx, di Rosa Luxemburg, di Bernstein, del “rinnegato Kautsky” rimbalzavano nel dibattito. Al voto dei grillini sul Conte bis invece si è arrivati senza uno straccio di riflessione. Senza un ragionamento. Senza che chi aveva condiviso e partecipato da protagonista all’alleanza di governo con la Lega di Salvini avesse fatto un passo indietro.
Insomma l’apoteosi dell’italico trasformismo. Con una scelta dei tempi non casuale. Prima si fa salire Conte al Quirinale, si gettano le basi dell’accordo col Pd, si stilano i famosi 20 punti e poi si chiama il “popolo” a votare. Altro che momento storico per la democrazia diretta! Quello andato in onda ieri ricorda da vicino il plebiscito calato dall’alto. E non è un caso che al Qurinale alla possibilità che gli iscritti M5S potessero rimettere in discussione il percorso stabilito – e dunque delegittimare Mattarella - non ci hanno creduto neanche un minuto. Quello che non si poteva ipotecare con certezza non era insomma la ovvia vittoria del sì, ma le sue dimensioni. Ma quella era ed è una cosa che riguarda essenzialmente le dinamiche interne al M5S. Il miracolato di Pomigliano, in predicato per la poltrona di ministro degli Esteri, forse contava su un risultato meno netto. Che gli avrebbe permesso di presentarsi come il mediatore tra le diverse anime grilline. Ma ci mette un attimo a riposizionarsi. Se ancora nel pomeriggio alla domanda su dove avesse messo la sua croce il capo politico del M5S rispondeva, sia mai, «ho votato ma il voto è segreto», subito dopo a risultati sicuri afferma stentoreo che «il M5S ha garantito la stabilità di questo paese. Noi siamo e resteremo sempre in una democrazia parlamentare come questa l'ago della bilancia della legislatura». Gigino quando dice “noi” parla di se stesso. Lui è e vuole essere l’ago della bilancia. E con un altro giro di valzer passa allegramente dall’«uno vale uno» al nuovo mantra poltronaro «uno non vale l’altro», perché «l'esperienza di questi anni del M5S» è una «risorsa anche per il futuro governo». Tradotto, non si sognassero i nuovi soci del Pd e soprattutto i commilitoni a cinque stelle a metterlo da parte, che lui ha già fatto tanti sacrifici. «Potevo diventare premier, vengo da un percorso di rinunce. L'ho fatto a suo tempo quando decisi di dire no a Berlusconi nella coalizione di governo rinunciando alla possibilità di fare il premier. Mi è stata offerta da Salvini la carica di premier e io ho rifiutato».
Il Pericle de ‘noantri torna a battere il tasto populista del taglio di 345 parlamentari. «Siamo d'accordo di approvarlo nel primo calendario utile e diventerà legge, poi ci sarà un periodo transitorio di 6 mesi in cui bisogna mettere a punto diverse cose come il regolamento del Senato, ma comunque non aspettiamo l'adeguamento di normative e regolamenti: ora si tagliano i parlamentari. Uno dei motivi per cui è caduto il governo precedente - nessuno me lo toglie dalla testa - è che non si volevano tagliare i parlamentari». Quello del taglio delle “poltrone” è il refrain ripetuto in queste ore in tutte le dichiarazioni dei pentastellati, dal ministro Fraccaro all’ultimo dei peones. Si tratta della polpetta da sventolare ad un elettorato che al fondo è irriducibile alla democrazia rappresentativa e alla sue regole. Eccolo il vero vulnus alla democrazia rappresentativa. Ed è una pistola puntata alla tempia del Pd. Che o si acconcia ad indossare anch’esso l’arlecchinesco vestito populista o sarà tacciato di essere espressione del “vecchio sistema” ed esposto al pubblico ludibrio. «Saremo controllori che tutto avvenga correttamente» dice Di Maio, sottolineando – e c’è da credergli - che questo nuovo Governo «non sarà di destra o sinistra».
Appunto. Il trasformismo. E quando a Salvini manda a dire «potevi esserci tu, hai deciso di metterti da parte», il capo politico dei Cinque stelle manifesta che l’unica ideologia che lo guida, la sua stella polare è niente altro che l’occupazione del potere. E in nome di quel potere potrebbe, domani, tornare a flirtare con l’ex sceriffo del Viminale.
I mercati nei prossimi giorni probabilmente festeggeranno lo scampato pericolo. Ed è un bene. Ma certo appare decisamente sopra le righe il segretario del Pd, Nicola Zingaretti quando dice – in realtà non ci crede nemmeno lui – «ora andiamo a cambiare l’Italia». L’unica cosa che potrebbe cambiare è il segretario del Pd. Forse anche dalle parti del Nazareno servirebbe una Bad Godesberg. A Berlusconi invece serve tempo. E lo ha ottenuto. Il Cavaliere non lo dirà mai, ma se il Conte bis dovesse arrivare alla fine della legislatura o comunque proiettarsi oltre l’anno, è altamente probabile che la Lega vada sotto il 30 per cento. Passa da qui, da un ridimensionamento sensibile di Salvini (e di Fratelli d’Italia) la possibilità di ricostruire il centrodestra.
di Giampiero Cazzato
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