«Giù i minorenni dalla Sea Watch». Continua a tenere banco la vicenda della nave della Ong tedesca che il 19 gennaio ha salvato a largo delle coste libiche 47 migranti e che si trova al terzo giorno alla fonda ad un miglio e mezzo dal porto di Siracusa dove è attraccata per sfuggire al mare in tempesta. Mentre una delegazione di parlamentari battibeccava con la questura del capoluogo provinciale siciliano per ottenere il permesso di salire a bordo e constatare di persona le condizioni dei migranti, l'organo di tutela della minore età, il Garante per l'infanzia del comune siciliano, Carla Trombino, ha presentato al Tribunale dei minori di Catania un esposto affinché si renda possibile quanto prima lo sbarco dei tredici minorenni costretti sull'imbarcazione. A suggello della richiesta, depositata dall'avvocato Rosa Emanuela Lo Faro, «i maltrattamenti e le torture» che i giovani avrebbero subito durante la detenzione nei centri in Libia. E proprio qui starebbe il nodo della questione, lo spartiacque tra chi spalleggia la linea dettata da Matteo Salvini e recepita (per non dire subita) da gran parte dei membri del governo e chi intravede in tale condotta estremi da codice penale. In una vicenda dalle tinte poco nitide, dai contorni simili a quella che coinvolse la nave Diciotti, in cui di certo c'è soltanto il disagio patito dai 47 a bordo della Sea Watch e il calpestamento dei diritti umani e degli obblighi internazionali sulla gestione delle emergenze in mare, quella che il ministro degli Interni riferisce come linea politica rischia di naufragare in un ingiustificato accanimento. Perché si parli di scelta politica, infatti, occorre che quest'ultima rientri nei parametri indispensabili di legalità e conformità all'ordinamento, interno ed internazionale, sottoscritto e varato dall'Italia. Tutto il resto è propaganda, o poco ci manca. Sostenere che tenere rinchiuse per giorni diverse persone, già in fuga da situazioni al limite, per rimanere sul generico in mancanza di dettagli, in nome della difesa della patria, tacciandole di essere clandestini e/o potenziali criminali senza alcun tipo di appiglio che ne attesti la fondatezza, il tutto in nome di una visione politica, rischia di diventare uno sport spietato che si gioca sulla pelle dei più deboli, di quelli senza voce in capitolo e che per tanto non possono né smentire né argomentare tesi a loro difesa. Fare il Ministro comporta oneri sia in termini di risultati da conseguire che di responsabilità di cui tenere conto e pensare di puntare tutto solamente sulla prima voce, in barba a chi subisce le conseguenze, non rientra appunto nella voce "responsabilità". Ministro lo si è dell'intera cittadinanza e non del proprio elettorato. Far passare per linea politica atti che violano deliberatamente le regole a tutela dei diritti e della dignità degli esseri umani (siano essi italiani o meno) è un gioco col fuoco che non può che lasciare scottati. Puntare i piedi, sbattere i pugni sui tavoli con l'Europa, richiedere anche con vigore politiche lungimiranti sull'immigrazione è sacrosanto diritto, nonché dovere, di un rappresentate politico, operare al limite della legalità con continue provocazioni, sbeffeggiando le regole in nome dell'autorità conferita dal popolo non può che portare alle ovvie conseguenze, leggasi inchiesta ai danni del ministro degli Interni, di cui si apprende da giorni.
Il secondo capitolo di questo “pasticciaccio brutto” passa proprio per le sorti di Salvini in seguito all'intenzione del Tribunale dei ministri di Catania di portarlo a processo per sequestro di persona e abuso di potere. Tolto che per qualcuno rappresenta un'imperdibile chance per il ministro di uscirne da martire, la cosa non pare scalfirlo, almeno sotto il profilo mediatico, dove "il capitano" resta topic trend un giorno sì e l'altro pure. È dentro la coalizione di governo che ci si interroga sul da farsi. Se nei giorni scorsi il leader del Carroccio aveva scombinato le carte in tavola, affermando all'interno dello stesso discorso di essere «pronto a farsi processare» e di non volersi avvalere dell'immunità, prima di smentirsi dicendo di voler lasciare la palla al «voto del Senato», ci hanno pensato i colleghi grillini a fugare ogni dubbio: «Voteremo sì al processo». Ci si può fidare se a dirlo è il capo politico Luigi Di Maio che però, ai microfoni di "Non è l'Arena" ci tiene a precisare che quanto accadde nella vicenda della Diciotti «fu una decisione di tutto il governo». Un colpo al cerchio e uno alla botte: uno per coerenza all'elettorato abituato da anni alla tolleranza zero (specie se c'è di mezzo la “casta”), l'altro all'alleato a cui non si vuol «fare un dispetto» negandogli la possibilità di andare fino in fondo alla questione. Processo sì, dunque, (salvo parere negativo della Giunta per le autorizzazioni e conseguente voto in Senato previsto tra due settimane) ma con la certezza «che sarà assolto», parola dell'altro apostolo Alessandro Di Battista. Intanto, impassibile, Salvini invita a votare «secondo coscienza» sia i propri di deputati che quelli penstastellati, lasciando alla platea l'ennesimo, stonato, interrogativo: «Ma è normale che un ministro dell'Interno, con l'appoggio di tutto il governo, venga processato per aver fatto quello che ha promesso in campagna elettorale?». Ai più attenti non sarà sfuggita la nostra risposta.
di Alessandro Leproux
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