Nonostante nella serata di ieri entrambi i vicepremier avessero fatto sentire la propria voce, affidando ai social il pensiero secondo cui la nave Ong Sea Watch, da più di sei giorni a largo del Mediterraneo dopo un salvataggio di 47 migranti avvenuto in acque Sar libiche, avrebbe dovuto tirare dritto, magari verso i porti francesi, e scordarsi il porto di Siracusa, l'imbarcazione è ora alla fonda ad un miglio e mezzo di distanza dal porto di Augusta. Motivo? Ufficialmente l'Italia ha acconsentito all'ancoraggio della Sea Watch per tutelare le vite dei passeggeri a bordo a causa del forte maltempo che ha investito il bacino Mediterraneo. Ufficiosamente più di qualcuno pensa che dietro ci sia la vicenda della richiesta a procedere contro il titolare del Viminale e leader della Lega Matteo Salvini da parte dei giudici del Tribunale dei ministri di Catania, che contrariamente al parere espresso dal Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, hanno rinvenuto nella condotta di Salvini, riferita all'episodio del presunto sequestro di persona dei migranti a bordo della nave Diciotti di questa estate, gli estremi per procedere contro di lui per abuso d'ufficio in violazione delle norme internazionali sul soccorso in mare.
Fiancheggiata da motovedette della Guardia di finanza, la nave Sea Watch ha ottenuto sì l'autorizzazione per rimanere alla fonda, ma non certo quella per sbarcare i 47 a bordo, tra cui, stando a quanto proferito dall'equipaggio tedesco, figurerebbero persone in stato di ipotermia. Il vicepremier Luigi Di Maio ha ribadito quanto già postato ieri sera e cioè che «la Sea Watch 3 avrà dal governo italiano supporto medico e sanitario qualora ne avesse necessità, ma la invito ancora a puntare la prua verso Marsiglia. Ritengo opportuno convocare immediatamente l'ambasciatore olandese e chiedergli che intenzioni abbia il suo governo. Noi siamo disponibili alla massima collaborazione ma la nostra linea sulle Ong non cambia». A spalleggiarlo anche il titolare dei Trasporti Danilo Toninelli, secondo cui la Sea Watch non avrebbe «rispettato la legge del mare» in quanto «avrebbero dovuto attendere la guardia costiera libica (perché il tutto è avvenuto nel mare libico). Siccome se ne sono andati a questo punto direi che, come dice bene il vicepremier Di Maio, si dirigano verso la Francia, verso Marsiglia anche se potrebbe esserci l'alternativa olandese». Non è l'unico a invocare il governo dei Paesi Bassi, anche Salvini ha fatto sapere di aver scritto una lettera all'Olanda in cui invita il governo a farsi carico dei 47 migranti a bordo della nave Ong, di provenienza appunto olandese.
Resta proprio il vicepremier in quota verde il massimo protagonista dello scontro serrato, sia interno che con l'Europa, sulla questione migratoria. E se l'intenzione ferma e ribadita di non voler tornare indietro dalla politica dei porti chiusi e della persecuzione mediatica delle Ong resta un punto nevralgico della sua strategia, ora Salvini invoca il consenso popolare quale contrapposizione alle sue presunte violazioni di legge. «Ritenetemi sequestratore anche per i mesi a venire» aveva pronunciato ieri, tra il polemico e il sarcastico (non prima di aver esultato per le decine di migliaia che su Twitter hanno rilanciato l'hashtag #SalviniNonMollare). Quella che per i giudici alle pendici dell'Etna è una condotta illegale, per Salvini è «difesa della patria» e pura «applicazione della Costituzione». Non passano inoltre inosservati i continui appelli al suo elettorato («Se voi ci siete io ci sono» e similari) che appaiono almeno una volta al giorno sui suoi profili social e che sembrano equiparare il consenso popolare alla legge, non esattamente il massimo per la democrazia di uno Stato di diritto.
Stato di diritto chiamato in causa proprio dallo stesso Salvini, che riferisce di aver consultato diversi legali riguardo la sua vicenda giudiziaria che definisce «palese invasione di campo da parte di un potere dello Stato nei confronti di un altro potere dello Stato». Per Salvini ci troviamo in una «repubblica giudiziaria», ma il messaggio da recapitare è quello del "capitano" sprezzante del pericolo che, anche di fronte a una possibile condanna che oscillerebbe dai 3 ai 15 anni di carcere, non arretra e si dice «pronto a farsi processare» e non bisognoso di alcun tipo di protezione: «Altri chiedevano l'immunità perché rubavano, io invece ho applicato la legge da ministro». Nonostante a parole si dica tranquillo e si senta, probabilmente, nel giusto, Salvini sente il fiato sul collo e, per quanto insista nel volerlo negare, l'immunità resta lo scudo dietro cui ripararsi. Chissà se, col senno di poi, in virtù del più classico dei do ut des, il ministro degli Interni cederebbe al partner di governo sulla prescrizione in cambio del voto sul dl sicurezza. Perché se un ministro e membro del Parlamento, che gode quindi dell'istituto dell'immunità, trova da ridire sull'accanimento giudiziario che fa leva sull'obbligatorietà dei giudici a procedere dinnanzi a un illecito, obbligatorietà che purtroppo talvolta sfocia in persecuzione, cosa dovrebbe dire un comune cittadino che è ora alla mercé del sistema giudiziario e, privato della prescrizione, rischia di passare una vita rimbalzando tra processi e aule di tribunale per poter dimostrare la propria innocenza? Ad andare con lo zoppo si impara a zoppicare, allora Salvini dovrebbe prendere atto e dare peso alle proprie azioni, in primis quelle politiche, e piuttosto che prendersela con la magistratura dovrebbe fare mea culpa.
La palla passerà quindi al Senato, interpellato per dare o meno l'autorizzazione a procedere contro il ministro. Quel giorno l'Aula avrà occhi soltanto per i grillini, paladini contro l'impunità della "casta", chiamati a rispondere con i fatti ad anni di parole. Fatti che, coerentemente con quanto professato in lungo e in largo, comporterebbero l'autorizzazione a procedere per i giudici di Catania.
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