Alla fine Luigi Di Maio, di fronte al protagonismo di Matteo Salvini, visto come quello di un premier di fatto, anche sull’onda della grande manifestazione di sabato a Roma, sbotta, ma lo fa con una certa moderazione e un pizzico di pragmatismo. Replica Di Maio, l’altro vicepremier, oscurato, ormai nei fatti, da giorni: «Salvini incontra gli imprenditori? E’ un fatto positivo, tutti i ministri devono ascoltare le categorie produttive, ma alle parole devono seguire i fatti e quelli si fanno al Mise». Ovvero il ministero dello Sviluppo economico di cui, insieme con il dicastero del Lavoro, il capo pentastellato è titolare. E però anche le sue stesse parole a difesa del suo ruolo alla fine non fanno altro che amplificare un dato di fatto sotto gli occhi di tutti. E cioè che Di Maio incalzato dal contraente di governo, che viaggia ormai sulle ali di sondaggi sempre più positivi, e parla della Lega come “prima forza del Paese”, come ha fatto a piazza del Popolo, sta giocando di rimessa. Salvini è abile e, ovviamente, sta ben attento a non attaccare mai la politica dei Cinque Stelle in quanto tale. Ma la butta in positivo, sottolineando che i suoi “sono appunti, proposte da presentare al premier Conte e a Di Maio”. Ma nonostante la replica irritata del capo pentastellato di fatto rilancia con la proposta di un referendum dove lui è “per il Sì alla Tav”. È difficile, se non impossibile, replicargli accusandolo di travalicare il suo ruolo, perché intanto non è solo il ministro dell’Interno, ma anche lui è vicepremier e quindi numero due di Conte. Non solo: Salvini è anche il capo di quella Lega che storicamente sempre tra le categorie produttive e industriali del Nord ha avuto e ha i suoi sostenitori naturali. E quindi potrebbe ben rispondere a Di Maio: come fa proprio il segretario della Lega a non dare ascolto al malcontento e alle proposte di artigiani, imprenditori, categorie industriali di quel Nord dove il partito ha le sue storiche radici? Chiaro quindi che lui quelle categorie le ha incontrate innanzitutto come leader della Lega. E su questo poco avrebbe da eccepire Di Maio. Sarebbe un po’ come dire a lui di non occuparsi di un nodo nevralgico proprio di quel Sud da cui trae soprattutto la sua forza. E anche allo stesso premier Giuseppe Conte, che secondo i gossip non avrebbe molto gradito quella richiesta fatta da Salvini al “popolo” anzi “a 60 milioni di italiani” di “un mandato per trattare con la Ue”, proprio nel momento in cui il premier è alle prese con la trattativa con Bruxelles, il leader della Lega potrebbe sempre rispondere che lui quel mandato l’ha chiesto appunto in quanto leader della Lega di fronte al suo popolo.
Insomma, comunque uno la metta, I Cinque Stelle sembrano ormai come imbrigliati da un gioco sottile in cui un Salvini, uno e trino, rischia oggettivamente di logorarli. La differenza tra lui e Di Maio sulla solidità come leader di partito è netta. Il ministro dell’Interno ha alle spalle un partito che è il suo, non solo perché storicamente in Lega (“l’ultimo partito leninista”, lo definì Maroni) comanda da sempre uno solo, e le correnti non sono ammesse, ma anche perché da sabato 8 dicembre a piazza del Popolo sembra essere partita davvero una nuova Lega, il partito nazionale rimodellato da Salvini. Che come “prima forza del Paese” si candida a diventarne l’asse politico centrale, il partito maggioritario, il corpaccione politico. Aspirazioni, certo. Ma Salvini sembra aver molto chiaro quello che intende fare. Da qui il sovranismo declinato in modo europeista, anche se può sembrare un paradosso. Da qui la cosiddetta “svolta moderata”, corroborata sul piano internazionale anche dalla visita in Israele; rafforzata da concetti come “cambiare la Ue dall’interno”, per un “rinascimento europeo”, un nuovo asse tra Roma e Berlino. «Non ho nessuna idea in testa di Brexit italiana », ha ribadito Salvini lunedì 10 dicembre presentando il viaggio in Israele alla stampa estera. Questa è la rotta. Che, ribadisce per rassicurare il contraente, fa perno su “un governo che dura 5 anni” perché “Berlusconi, che è un grande, mi disse: va e prova e allora io ci provo, non mando tutto all’aria dopo sei mesi”. Meno solida la posizione di Di Maio che, invece, arrivato al suo secondo mandato, secondo le regole grilline è all’ultimo giro. E guida un MoVimento sempre più diviso tra governativi e la cosiddetta ala dura e pura. Ma certamente “l’amico Luigi” (come lo chiama Salvini), seppur in affanno, cerca sempre a suo modo di tener botta e non dà affatto l’idea di uno che intende mollare. Il capo pentastellato è ritenuto il numero uno di quell’ala filogovernativa grillina che qualche parlamentare leghista in vena di battute ha definito “dei nuovi democristiani”. E se per caso, butta là provocatoriamente qualche malizioso avanzando uno scenario che può suonare di fantapolitica: «Proprio Di Maio diventasse un giorno, in un nuovo governo di centrodestra, in cerca di responsabili, l’Alfano di Salvini premier?».
di Paola Sacchi
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