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Scontro interno sulla flat tax, Tria: «Solo 600mln il primo anno», per Salvini «sono più del doppio»



Manovra a oltranza, costi quel che costi. A nulla sembrano servire i moniti giunti da tutti gli ambienti finanziari internazionali, suggellati dallo spread che schizza alle stelle, confermati dai pareri negativi dell'Fmi o dalla relazione di Bankitalia, passati per le parole del commissario all'Economia Ue Moscovici e per i tentennamenti del ministro Giovanni Tria. La manovra s'ha da fare, contro tutto e contro tutti. Ne hanno fatto una questione di schieramenti i due vicepremier a guida del governo gialloverde, una missione dei portatori della luce del cambiamento contro gli oscurantisti burocrati che, nell'ombra, tramano contro i destini delle nazioni sovrane. Sembra un plot da sequel del Signore degli Anelli, ma tant'è.


L'ultimo bizzarro capitolo dell'intricatissimo periodo che precede l'approdo della Nota di aggiornamento del Def alla Camera è caratterizzato da un diverbio tra Matteo Salvini e il ministro Tria. L'oggetto del contenzioso è la flat tax, il Santo Gral che Salvini ha promesso ai suoi elettori per dar via alla rivoluzione fiscale annunciata. Come è poi andata lo sappiamo tutti e, almeno per il 2019, il provvedimento riguarderà soltanto le partite Iva. Ma è sullo stanziamento ad essa dedicato che è nato lo strappo. Seicento milioni di euro a sentire il titolare di via XX Settembre. Molti di più, più del doppio a sentire il capo politico del Carroccio. «Sono di più, un miliardo e 700 milioni», ha annunciato un determinato Salvini a margine dell'anniversario dalla fondazione dei Nocs della polizia, prima di aggiungere che «lunedì arriva il decreto fiscale, i numeri saranno scritti e non mentono».


Sullo scontro con le istituzioni europee, invece, la musica resta la stessa. «La manovra non cambia, ho assunto un impegno per cambiare la Fornero e adesso perché qualcuno a Bruxelles, lo spread o Bankitalia mi dice che non va bene dico agli italiani che ho scherzato? Io la manovra non la cambio, io vado dritto». Dritto per la sua strada, accompagnato da Di Maio, anche lui restio a «tradire i cittadini». E sulle voci che vorrebbero il governo sull'orlo della spaccatura decisiva che riporterebbe il Paese alle urne, le smentite arrivano congiunte e puntuali, come dimostra la comparsata dei due vicepremier di ieri sera sotto Palazzo Chigi durante un vertice sulla manovra, un'occasione per farsi fotografare insieme, uniti. Una prova di tenuta e solidità non richiesta, che fa rimbombare l'eco dei malpensanti. «Se volessi le elezioni sarei egoista. Da segretario della Lega dovrei volerle visto che se andiamo a votare eleggo il doppio di senatori e deputati. No, io ho firmato un impegno. Sto qua e continuo per 5 anni a fare quello che mi sono impegnato a fare. Sondaggi sì o no. Spread sì o no». Categorico il leader leghista che non vuole saperne di lasciare la barca, mezza a galla o mezza affondata, a seconda dell'occhio che si trova a guardarla.

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