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Spunta un’azienda di software italiana nell’intrigo spionistico del caso Khashoggi



Spunta una pista italiana nel caso Khashoggi. L’intrigata vicenda di spionaggio si arricchisce di nuovi particolari. Secondo quanto riferisce il Washington Post, ci sarebbe anche l’italiana Hacking team, tra le aziende che hanno contribuito a potenziare l'arsenale cybernetico dei sauditi, in particolare del principe ereditario Mohammed bin Salman. Arsenale usato non solo contro i terroristi ma anche contro i dissidenti, tra cui c'era anche il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso da agenti di Riad a Istanbul. Il Washington Post era il quotidiano con cui collaborava Khashoggi e David Ignatius, autorevole columnist che riporta questa indiscrezione, è sempre ben informato.


L’azienda milanese, di cui parla Ignatius, è conosciuta in tutto il mondo per la produzione di software in grado di spiare a distanza dati e informazioni che transitano su computer e smartphone. Lavora per committenti istituzionali, tra forze dell'ordine italiane e straniere ed è in grado di infettare sia sistemi Windows che Mac, ma anche smartphone con Android, iOS e BlackBerry. Nel 2015 aveva ottenuto l’autorizzazione alla commercializzazione del software in 46 Paesi, tra cui l'Egitto, da due anni teatro di un durissimo braccio di ferro con l'Italia che pretende chiarimenti sull'omicidio del giovane ricercatore friulano Giulio Regeni. Il software dell'azienda potrebbe essere stato utilizzato infatti per accedere al suo cellulare

Nel 2016 l’azienda milanese era stata sotto i riflettori della cronaca per aver subito una intrusione che portò alla divulgazione di 400 gigabyte di file riservatissimi.


L’editorialista del Washington Post non fornisce le prove che la società italiana abbia effettivamente fornito al governo saudita il software per spiare e arrestare Khashoggi ma ricostruisce uno scenario che supporta la sua tesi. Nella vicenda tutto ruoterebbe attorno all'avvocato Saud al-Qathani, ex membro dell'aeronautica militare saudita e dirigente ambizioso alla corte reale di Riad, dove è responsabile del Center for Studies and Media Affairs. Lui e i suoi cyber colleghi hanno lavorato inizialmente con l'italiana Hacking Team, che ha come clienti circa 40 governi. Poi hanno acquistato prodotti realizzati da due compagnie israeliane - NSO Group e la sua affiliata, Q Cyber Technologies - e da una degli Emirati, la DarkMatter. Qahtani, scrive il Wp, ha costruito un network di sorveglianza e di manipolazione dei social media per far avanzare l'agenda del principe e sopprimere i suoi nemici.


L'intelligence saudita, ricorda il Wp, ottenne nel 2013 da Hacking team strumenti per penetrare iPhone e iPad, e due anni dopo voleva un accesso analogo ai telefonini con sistema Android, secondo documenti rivelati da Wikileaks nel 2015. Fu in quest'anno che al-Qathani cominciò a dimostrare la sua lealtà al favorito del re, Mohammed. E nel giugno del 2015 scrisse al capo di Hacking team chiedendogli la lista completa dei suoi servizi proponendogli "una lunga partnership strategica". Il rapporto tra la società milanese e Riad divenne così forte, è la tesi del Wp, che quando Hacking team incontrò difficoltà finanziarie dopo le rivelazioni di Wikileaks, si fecero avanti investitori sauditi. Una compagnia basata a Cipro, la Tablem Limited, guidata da un imprenditore della famiglia di Al-Qahtani, acquistò il 20% della Hacking Team nel 2016. La società milanese vendeva i suoi software a numerosi Paesi che li usavano non solo per sconfiggere la criminalità o il terrorismo. Ma per spiare giornalisti ed attivisti politici. Proprio come nel caso di Khashoggi.

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