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Stalking, no alla doppia contestazione in caso di omicidio è la vittoria dell’avvocato Cardillo Cupo




L’avvocato Cardillo Cupo, in un’intervista esclusiva rilasciata a Spraynews, spiega il nuovo principio emesso dalla Cassazione secondo cui il delitto di stalking non può essere contestato laddove sia già stata applicata, in caso di omicidio, l’aggravante specifica degli atti persecutori. Il noto legale, inoltre, interviene anche sull’importanza di una riforma della giustizia, sulle ultime inchieste di Palamara e sull’esigenza di cambiare un sistema che a suo parere necessità di profondi mutamenti.


Stalking in caso di femminicidio, si è fatta finalmente giustizia?


«Il problema giuridico che ho sollevato davanti alla V sezione della Corte di Cassazione è il seguente: una persona che ha commesso lo stalking fino alle estreme conseguenze, causando il decesso della vittima, si ritrova a dover rispondere di omicidio aggravato ai sensi dell’art 576 n.5.1 per l’aggravante di aver commesso il fatto in presenza di stalking. La pena quando c’è tale aggravante passa da 21 anni all’ergastolo. Questo è l’impianto che rimane in essere all’interno del nostro ordinamento e che offre chiaramente piena tutela alle vittime. Fino a oggi, tuttavia, sulla base di un orientamento precedentemente di tipo diverso, ieri risolto dalle sezioni unite della Cassazione, era previsto che oltre all’ergastolo, in caso di omicidio, si dovessi rispondere ancora una volta anche del delitto di stalking. L’imputato, quindi, veniva condannato all’ergastolo più alla pena prevista per lo stesso delitto».


Lei si è impegnato molto sulla vicenda. Perché?


«La ritenevo una battaglia basata sul principio di giustizia. Le vittime di stalking devono avere da parte del legislatore piena e ampia tutela perché è un reato molto grave per chi lo subisce. Allo stesso tempo, però, non dobbiamo consentire che all’interno di un ordinamento, che è tra i più antichi del mondo, il responsabile su un’onda emotiva della società si ritrovi poi a pagare il dramma di non avere una condotta delittuosa. L’esempio più calzante è quello di una madre di famiglia, vittima di maltrattamenti da parte del marito che arriva alle estreme conseguenze dell’omicidio. Quest’ultimo, se non passava il provvedimento, sarebbe stato sanzionato in maniera molto più mite rispetto allo stalking e questo non sarebbe stato giusto perché obiettivamente i maltrattamenti sono reato molto più grave rispetto al generare una duplicazione di contestazioni».


Per quanto riguarda lo stalking, la giurisprudenza dovrebbe rivedere ancora alcuni aspetti?


«Con questa pronuncia, in tutti i casi i giudici sapranno come regolarsi, essendo fino a questo momento la normativa non del tutto chiara. Stiamo parlando di un qualcosa dove le norme, infatti, diventano di difficile interpretazione anche per i giudici più autorevoli. Sullo stalking ritengo ci sia ancora tanto da fare. Troppo spesso troviamo episodi che non vengono ritenuti tali o contrastati adeguatamente. Nel medio tempo, sono necessari ulteriori provvedimenti, pur essendo stato fatti comunque passi in avanti. Ciò non giustifica, però, un abbassamento della guardia. Lo stesso ultimo provvedimento deciso in Cassazione non diminuisce la risposta sanzionatoria dello Stato o riduce le tutele e le garanzie delle vittime. E’ un qualcosa che correttamente indica l’interpretazione giusta di una norma».


A proposito di cambiamenti, secondo lei quanto serve una riforma della giustizia?


«E’ indispensabile. Abbiamo una giustizia frastagliata in mille rivoli, tra provvedimenti che si susseguono, decreti legge, decreti del presidente della Repubblica. C’è bisogno di un codice unico che venga chiaramente rimodulato e rimodellato su tutti gli aspetti del nostro vivere civile, dove il legislatore consenta anche al cittadino medio di capire se un fatto sia o meno previsto dalla legge. Tanti di noi commettono reati minori senza saperlo a causa di una normativa che non è chiara, non è nota, di difficile accesso e spesso conosciuta solo agli addetti ai lavori. Questo non può andar bene, soprattutto in uno Stato di diritto come il nostro».


Cosa ne pensa del “Sistema” di Palamara?


«Le sue inchieste, il suo ultimo libro, questo tema che sta imperversando sui social hanno evidenziato quanto si sapeva da tempo, ovvero la presenza di innumerevoli correnti all’interno della magistratura. Non entro nel merito dei reati perché non so se corrispondono al vero o meno. Non spetta a me giudicarlo. Posso dire, però, che in seguito al libro, non possiamo far finta di non vedere una situazione all’interno della magistratura, che talvolta è debordata da diversità di pensiero che favoriscono qualcuno o delegittimano qualcun altro. E’ necessario, invece, che all’interno della magistratura sia chiaro che l’unico principio per cui un magistrato si eleva rispetto agli altri è la meritocrazia. E’ chiaro che tutto questo sarebbe favorito se ci fosse una divisione delle carriere perché ognuno all’interno del suo ambito di riferimento avrebbe modo di dimostrare le proprie capacità e svilupparle».


In tanti sostengono che la magistratura, negli ultimi tempi, stia perdendo credibilità. E’ d’accordo?


«E’ innegabile ed è un brutto segnale in un Paese che riconosce nell’ordinamento giudiziario uno dei poteri principali. Se esercitato in maniera corretta e trasparente può essere un vanto per chi lo esercita, ma quando iniziano ad apparire distorsioni più o meno forti è lì che si rischia di farlo diventare antipatico agli occhi del popolo. Ho sempre tenuto in mente il principio, che leggevo sui manuali da quando ero ragazzino, che dice che il magistrato non solo deve essere terzo e imparziale. Questo non è sufficiente, ma è necessario che il cittadino non abbia neanche la lontana idea che un magistrato possa non esserlo».


Diversi noti esponenti del mondo della politica, dopo una serie di accuse rivelatesi infondate e un calvario durato anni, sono stati assolti. Come evitare fenomeni, purtroppo, sempre più diffusi?


«Bisognerebbe cambiare il modo di ragionare. Essere indagati, nel nostro Paese, è un’onda feroce che si vede soprattutto quando si è impegnati a livello politico come un qualcosa di devastante e di gravissimo. Ciò è certamente causato da un populismo becero. L’indagare dei magistrati è certamente un fatto giusto, fanno il loro lavoro e non sarebbe corretto vietarlo o minarlo da parte della politica, altrimenti si cadrebbe in un conflitto tra poteri dello Stato da cui non se ne esce più. Allo stesso tempo, però, bisognerebbe imparare, e se non riusciamo a farlo, sono necessarie delle norme, che una persona indagata è come tutte le altre. Il problema è quando si è condannati. Possiamo essere indagati tutti i giorni e non saperlo. Il problema reale è l’uso distorto che si fa a livello politico e mediatico di una notizia. Oggi un esponente noto viene scaraventato in prima pagina, esposto sui social all’insulto pubblico e nessuno paga per nulla. Dopo cinque anni o sei, in cui si è dovuti sparire dalla scena per non essere massacrati dall’opinione pubblica, pur essendo assolti, nessuno chiede scusa per quanto si è subito, dimenticando che ci troviamo di fronte a persone a cui è stata distrutta la vita».


Un caso eclatante della cosiddetta “malagiustizia” è quello della trattativa Stato-mafia, dove chi ha combattuto la malavita, come nei casi del generale Mori o del colonnello De Donno, rischia la galera. Non le sembra tutto un controsenso?


«E’ un tema molto delicato su cui si rischia di fare scivoloni. Oggi abbiamo strumenti diversi per giudicare determinate condotte. Parliamo di una trattativa di 30 anni fa quando le conoscenze e la capacità di reazione dello Stato erano diverse rispetto a ora. E’ chiaro che fare una trattativa con la mafia è un fatto di una gravità inaudita, però bisogna vedere quanto riferito dai pentiti è effettivamente vero o ci sono forzature. Si tratta, comunque, di un tema scottante su cui si dovrebbero rendere pubbliche tutte le informazioni. Se qualcuno ha sbagliato è giusto che paghi. Abbiamo imparato a conoscere la severità sul tema mafia a spese di tanti cittadini e magistrati autorevoli. Oggi abbiamo gli anticorpi per combatterla e se come popolo siamo uniti saremo anche in grado di isolare un sistema marcio di gestione della cosa pubblica».


Di Edoardo Sirignano

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