La politica italiana, non se ne abbia a male Silvio Berlusconi, ci regala un nuovo uomo del fare. Ohibò, chi sarà mai il temerario che sfida il cavaliere in un terreno sui cui il leader di Forza Italia, qualunque cosa di lui si possa pensare, può vantare un palmarès di tutto rispetto? Rullo di tamburi, fiato sospeso et voilà, eccolo qua siore e siori il novello facitore, l’abile nocchiero, l’instancabile self made man. Sì, proprio lui, Luigi Di Maio. Già, proprio quello che solo pochi anni fa risultava al fisco italiano come un incapiente. Eccolo, invece, oggi che mette, petto in fuori, la sua firma sotto accordi commerciali e geopolitici con la Cina che farebbero tremare le vene ai polsi anche ai più esperti e navigati economisti. Lui, Di Maio, dubbi non ne ha. Perché tutto, anche una cosa epocale come quella del memorandum italo-cinese, finisce per essere battibecco, ammuina, ossessiva ricerca della telecamera. In una parola propaganda. Ieri la guerra in verità assai stucchevole (e paracula) tra i populisti de’ noantri ha conosciuto un ulteriore piccolo capitolo. Xi Jinping non aveva ancora raggiunto la scaletta dell’aero che lo portava a Palermo, ultima tappa del suo viaggio italiano , che i due vicepremier già se le suonavano.
Dunque al dubbiosissimo Salvini (ma sarebbe curioso capire bene le ragioni del gran rifiuto, al di là della dichiarata amicizia nei confronti degli Usa – chi non è poi amico degli Usa in Italia, almeno da 20 anni a questa parte?) che da Cernobbio si balocca con il libero mercato nemmeno fosse Adam Smith, risponde da Villa Madama, dove si è appena conclusa la cerimonia per la firma degli accordi con Pechino un Di Maio versione pugile. «Salvini ha il diritto di parlare. Io come ministro ho il dovere di fare i fatti». Boom.
Schermaglie che appaiono più dettate dalla guerra dei consensi, che dagli scenari internazionali (di quelli, per fortuna, si è fatto interprete in questi giorni Sergio Mattarella, che da garante della Costituzione e della collocazione internazionale dell’Italia, ha messo paletti fermi ad un sempre possibile egemonismo cinese nel Belpaese). Quello che pesa è il voto. I venti miliardi di euro che potenzialmente potranno venire dalla firma degli accordi Di Maio li mette sul piatto delle elezioni regionali in Basilicata e soprattutto su quello delle Europee, manco fosse un banditore al mercato. Come ha fatto con il reddito di cittadinanza. Solo che risalire nei sondaggi che danno il Movimento ben sotto il 20 per cento non basta il presidente cinese. A determinare il voto degli italiani peserà sicuramente di più il verminaio romano con la tripletta De Vito-Frongia-Donnarumma. Una storiaccia di tangenti per la costruzione dello stadio della Roma che, comunque vada a finire la vicenda giudiziaria e quali siano le responsabilità personali, getta una macchia di fango su quelli che fino a ieri ci raccontavano di essere un soggetto politico diversi dagli altri.
Lo scontro in atto tra Lega e M5S non è detto che deflagri immediatamente in una crisi di governo. Ma già il fatto che lo sceriffo della Lega abbia sostituito il perentorio «dureremo 5 anni», ovvero fino alla fine della legislatura, con il più modesto «se dipende da me questo governo arriva alla fine» è il segno che i due contendenti nel caso la situazione gli sfugga di mano (ed un successo “esagerato” di Salvini alle regionali potrebbe essere la miccia che innesca il detonatore della crisi) si stanno posizionando per lasciare in mano all’avversario-alleato il cerio, le responsabilità cioè della fine del governo Conte. Solo che nel frattempo siamo in recessione. Un'ultima notazione va fatta: Il Salvini che oggi snobba il memorandum è lo stesso che in quest’anno nulla ha fatto perché l’Europa avesse una voce unica ed un disegno comune nella gestione dei rapporti con il gigante asiatico. Una gestione comune che permetterebbe (o, meglio, avrebbe permesso) all’Italia di essere voce credibile a Bruxelles come a Pechino e Washington.
di Giampiero Cazzato
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