Prima di tutto, prima della ricostruzione del campo della sinistra, prima dell’iniziativa politica e sociale sui territori, prima del socialismo, prima del sol dell’avvenire, prima di tutto e propedeutico a tutto viene l’abbandono di certi tic che hanno reso le forze progressiste estranee quando non antipatiche al paese. Viene il rifiuto definitivo della «supponenza, dell’idea di essere sempre e comunque i migliori». Ma allora D’Attorre aveva ragione Luca Ricolfi che già nel 2008 sullo spinoso argomento aveva scritto il libro, “Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori”? Alfredo D’Attore, ex parlamentare ed esponente di Articolo 1, avrebbe tutti gli ingredienti per essere antipatico anche lui: studi alla Normale di Pisa, docente di Filosofia del diritto, occhialetti sul naso, una carriera accademica, politica e parlamentare.
D’Attorre i salotti hanno fatto male alla sinistra. A tutta la sinistra, da quella moderata, alla Renzi, alla cosiddetta sinistra antagonista che a un certo punto si è trovata più a suo agio nei salotti che a calcare i marciapiedi della periferie. Ma l’antipatia cui accenna pare più profonda, sembra un atteggiamento di fondo che non è facile sradicare. E’ così?
«A sinistra è come se noi avessimo inforcato degli occhiali che ci fanno vedere soltanto un pezzo della realtà. Ci fanno vedere solo una parte d’Italia e, cosa ancora più grave, ci fanno ragionare anche con una certa presunzione. Dobbiamo uscire dalla bolla mediatica, dalla bolla di twitter, saper tornare ad ascoltare un’Italia profonda, quella che una volta votava i partiti di massa della sinistra e che oggi, guardiamo le periferie, si è spostata massicciamente a destra».
Da dove iniziare dunque?
«Da una serie di basta. Basta con la presunzione di rappresentare l’“Italia migliore”, basta con il disprezzo che talvolta trasmettiamo nei confronti di chi ha smesso di votarci. Basta con la demonizzazione personale dell’avversario, venti anni di berlusconismo dovrebbero averci insegnato che questa è una strada che non porta lontano. Basta anche con un malcelato sentimento di estraneità rispetto all’Italia profonda, alla sue caratteristiche. Basta con un certa esterofilia, per cui qualsiasi critica arriva dall’estero o dall’Europa viene immediatamente accolta e fatta propria dalla sinistra. Il superamento di tutti questi atteggiamenti è, non sembri strano o esagerato, la precondizione perché la sinistra torni a fare con una qualche credibilità il suo mestiere, che è quello di occuparsi della questione sociale, il grande tema che abbiamo colpevolmente lasciato cadere in questi anni».
Le europee che abbiamo alle spalle hanno ridisegnato completamente lo scenario e ci consegnano dati inediti: una destra che conquista sempre più consensi nel Paese, un Pd che sostanzialmente tiene ed un crollo verticale dei Cinque stelle. Come li legge?
Con preoccupazione evidentemente ma anche con una dose di speranza per quel che riguarda la ricostruzione di un campo di centrosinistra. Fratelli d’Italia e Lega da soli superano il dato dell’intero centrodestra, con Forza Italia, dell’anno scorso. Dato che di per se prefigura quasi una possibile maggioranza autosufficiente alle prossime elezioni politiche. L’altro elemento di fondo è il crollo dei Cinque stelle, un crollo che va ben oltre alle più pessimiste aspettative della vigila elettorale. Il risultato della lista unitaria del Pd-Pse è un risultato di tenuta sostanzialmente. Zingaretti riesce a riportare al voto gran parte degli elettori del Pd dell’anno scorso e, grazie anche alla desistenza di Articolo 1, catalizza sulla lista circa metà dei voti di Leu. Viste le condizioni in cui erano il Pd e il centrosinistra solo un anno fa, si può anche considerare un risultato discreto».
Ma?
«Ma è evidente che siamo ancora totalmente dentro il recinto sociale del 4 marzo e rimaniamo insediati in quel pezzo di società benestante urbana, che è quella che ancora vota le forze di centrosinistra. Altro dato preoccupante è che non c’è nessuna capacità di intercettare i 6 milioni di voti in uscita dai Cinque stelle. Larga parte vanno nell’astensione, in parte vengono assorbiti dalla Lega. E’ questo il punto politico di fondo sul quale interrogarsi.
E che le fa dire cosa?
«Che siamo ben lontani dalla costruzione di una proposta e di un messaggio che tornino a parlare ai ceti popolari. Non sottovaluto il dato elettorale della lista unitaria: è un dato di sopravvivenza, il primo passo per ricostruire un confronto bipolare con la destra, che possa essere vincente in futuro, ma il cammino è tutto da compiere. Riscoprendo l’Italia reale e togliendosi quegli occhiali distorcenti di cui parlavo prima. Solo per darle due titoli, pensioni e reddito di cittadinanza: non è che non vanno bene perché lo dice l’Europa o Confindustria o Bankitalia. Non vanno bene perché sono scarsamente efficaci ed equi. Con quota 100 abbiamo gente che va in pensione con lavori per i quali potrebbe benissimo continuare a lavorare e inchiodiamo invece al lavoro persone che svolgono occupazioni pesanti ma che, pensiamo ai muratori e non solo, hanno una discontinuità contributiva che non gli fa raggiungere quella soglia. Con un provvedimento più equo, quelle risorse potevano essere impegnate per diversificare l’uscita dal lavoro sulla base del diverso carico usurante dei lavori, perché è evidente che un conto è fare il professore universitario, un altro è stare su un’impalcatura. Analogamente, sul reddito di cittadinanza è sbagliato negare l’esigenza di uno strumento contro la povertà, dubito però che possa funzionare come misura per il lavoro. Il tema della sinistra è allora come pensare a forme di lavoro di cittadinanza, cioè un grande piano per il lavoro gestito dallo Stato, che mobiliti investimenti pubblici e privati».
Anni fa Bertinotti disse che la parola comunismo era impresentabile. Ecco, non crede che più che impresentabile la parola sinistra sia diventata, a Casal Bruciato, piuttosto che a Taranto, semplicemente incomprensibile? E in ogni caso la parola non basta. Le dico questo guardano il risultato a dir poco deludente de La Sinistra di Fratoianni.
«No, non basta e non da oggi aggiungo. Dobbiamo intenderci sulla parola sinistra. Il risultato di quello che è stato l’ennesimo cartello elettorale della sinistra antagonista conferma quello che era già chiaro l’anno scorso dopo il risultato di Leu: non esiste più uno spazio elettorale garantito semplicemente per il fatto di autodichiararsi di sinistra. Il puro richiamo alla sinistra, al suo linguaggio, alla sue tradizioni, ormai parla a una ristretta cerchia di militanti. Al di fuori di questa cerchia di aficionados la società è del tutto disinteressata ad un richiamo semplicemente linguistico-identitario. Quello che conta è dimostrare di volersi e sapersi riconnettere con ceti popolari che si sono sentiti traditi e abbandonati. Abbandonati sopratutto nelle loro condizioni materiali di vita da un centrosinistra e da una sinistra che si sono riempiti la bocca di grandi valori - l’Europa, l’accoglienza, l’ambiente, la solidarietà - ma che nei fatti non hanno saputo dare nessuna risposta efficace in termini di tutela dei diritti sociali e del lavoro e anche di sicurezza. Quindi o si riesce a dare un messaggio che dice: lezione capita, si volta pagina e si inseriscono queste parole in un’altra cornice, oppure ci si condanna alla marginalità e alla – e nella migliore delle ipotesi – testimonianza».
In questi anni si è detto e ripetuto in tutte le salse che la sinistra doveva spostarsi al centro, catturare quell’elettorato lì. Il risultato non è stato dei migliori, eppure c’è chi insiste.
«È priva di fondamento l’idea che occorra spostarsi al centro se si intende il centro come il luogo del moderatismo, dei benestanti, di un ceto medio che, peraltro, non esiste più per come lo conoscevamo prima della crisi economica. Quel centro, quelli che abitano nei quartieri centrali delle città, quelli che si ritengono la parte più evoluta della società sono oggi la vera constituency del centrosinistra. E’ agli altri, agli operai, ai disoccupati, ai giovani, alle prese con il non lavoro o il lavoro nero, che dobbiamo guardare. E non credo che lì troveremo in quell’area che viene definita centro. Ma, lo ripeto, anche l’idea che basta semplicemente agitare parole più di sinistra, o spostarsi meccanicamente a sinistra sulla base di una vecchia fraseologia, non porta da nessuna parte».
Qualche giorno fa Pierferdinando Casini ha detto che un’area di centro avrebbe potenzialmente il 10 per cento dei consensi. A farne parte pezzi di Forza Italia che non vogliono morire salviniani e pezzi del Pd: Renzi e Calenda in buona sostanza. Come giudica l’operazione di Calenda che ipotizza la costruzione di un partito di centro che si allea al Pd?
«In astratto potrebbe pure essere uno schema che funziona. Certo, desta qualche sorpresa che venga proposta il giorno dopo essere stati eletti col Pd. Io francamente immaginavo che per le sue posizioni Calenda si sarebbe candidato con +Europa, anche in ragione del fatto che aveva espresso l’intenzione di andare nel gruppo dei liberali europei. In ogni caso, ritegno che se si andasse ad una articolazione del campo del centrosinistra in cui una componente liberal-liberista si organizzasse con una propria proposta autonoma e poi invece si creasse un soggetto più schiettamente socialista, questo sarebbe un elemento di chiarezza, che consentirebbe, questo sì davvero, di allargare lo spettro dei soggetti ai quali il nuovo centrosinistra è in grado di parlare. Aggiungo che noi sicuramente non rimarremo fermi ad aspettare Godot. In questo momento nel centrosinistra manca una gamba socialista di sinistra sociale, noi quella dobbiamo costruire , poi se ci saranno sviluppi nel Pd valuteremo come riorganizzare tutto il campo».
Insomma D’Attore, se non capisco male, Articolo1 si alleerà col Pd anche domani?
«Io penso che noi dobbiamo innanzitutto dire che stiamo ricostruendo una alleanza per l’alternativa alla destra e quindi stiamo costruendo una nuova coalizione, un nuovo centrosinistra. Questo Pd così come è adesso non ce la fa da solo a fare questa operazione. E’ un Pd che in questo momento mi pare, anche legittimamente, più preoccupato di tenere i suoi equilibri interni piuttosto che promuovere una svolta sociale e socialista, una presa di distanza più netta e più chiara dal liberismo, dall’idea, per esempio, che l’Europa e Confindustria abbiamo sempre ragione quando si discute di politiche economiche. Se noi vogliamo mettere in campo una proposta in grado di parlare ai ceti popolari che hanno votato Cinque stelle, e in alcuni casi perfino la Lega, abbiamo bisogno che ci sia un soggetto più genuinamente socialista, o come mi piace definirlo, ecosocialista, all’interno della coalizione. Penso che Articolo 1, senza ambiguità, senza tatticismi, senza tentennamenti, debba candidarsi a svolgere questo ruolo. Naturalmente in coalizione con il Pd ma svolgendo un lavoro, un mestiere, che il Pd non riesce a fare e che è tanto più necessario dopo la sostanziale scomparsa della sinistra antagonista».
Lei parla di elettorato di sinistra che è andato ai Cinque stelle. E’ possibile oggi, con questo movimento che è la stampella che consente a Salvini di fare il vicepremier e il ministro dell’Interno (e di licenziare decreti sicurezza ogni tre per due) di sedersi allo stesso tavolo?
«No. Francamente non vedo in questa legislatura la possibilità di cambi di maggioranza e non credo che possa essere questo gruppo dirigente dei Cinque stelle, cioè Di Maio, a gestire un’altra fase politica. Quello che noi dobbiamo fare è non considerare naturalmente uguali Lega e Cinque stelle, non lavorare, come si è fatto in maniera improvvida l’anno scorso, a una loro saldatura, ma provare soprattutto a parlare all’elettorato dei Cinque stelle, cambiare i rapporti di forza, provare a recuperare un rapporto con quelli che ci hanno voltato le spalle. Solo una volta che avremo cambiato i rapporti di forza e che un nuovo centrosinistra vedrà la luce, allora e solo allora si potranno valutare le condizione, eventualmente, di una collaborazione con il M5S. Non credo, tanto per essere chiari, che è qualcosa che si possa fare sul piano della manovra politicista o parlamentare. E’ qualcosa che passa per un cambiamento dei rapporti di forza nel Paese e credo anche, inevitabilmente, per un nuovo gruppo dirigente dei Cinque stelle. Di Maio ha gestito da protagonista la fase della collaborazione con Salvini. Quando si chiuderà questa fase inevitabilmente si porrà per il M5S il tema di una nuovo gruppo dirigente».
Ma quanto durerà questo governo?
«Fare previsioni è difficile. Continuo, nonostante i toni improvvisamente tornati colloquiali tra i partiti di governo, a non vedere le condizioni per una stabilizzazione della legislatura. Penso anche che sia inevitabile che, prima che cominci la parabola discendente, Salvini proverà a capitalizzare il risultato. Dubito, insomma, che questa legislatura possa andare oltre la primavera dell’anno prossimo».
di Giampiero Cazzato
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