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«Un Paese senza memoria è un Paese senza futuro», la storia letta nei libri di Alessandra Necci



Rileggere il presente analizzando il passato, conoscere la storia per capire gli avvenimenti che ci circondano. Un paradigma indissolubile per Alessandra Necci, docente universitario, studiosa e grande appassionata di storia. Tramite la rilettura delle vicende personali e pubbliche di grandi personaggi (o grandi sconfitti) che hanno segnato il periodo storico di loro appartenenza, nei suoi libri si riscontrano tutte quelle categorie dell'animo umano che sono le vere protagoniste del ripetersi incessante degli eventi nel corso dei secoli. Intrighi, tradimenti, amori, passioni, amicizie: tutto fa parte di un unico calderone da cui sgorga la storia. E, tra le pieghe di essa, la verità, quanto mai effimera, sfuggevole, interpretabile. Parallelamente un'altra Alessandra Necci, quella dell'impegno politico e ereditiera di un modus pensandi, figlio del celebre padre Lorenzo Necci, di un'Italia da reinventare nell'ottica di un progetto serio per il suo rilancio. Crisi della classe dirigente e mancanza di obiettivi comuni sono a suo avviso gli elementi da cui ripartire in un'analisi a fondo dell'immobilismo italiano. In esclusiva per Spraynews.it le abbiamo rivolto qualche domanda.


Alessandra Necci, come e perché si diventa scrittori?


«Nel mio caso è un’ispirazione che nasce sin dalla prima infanzia e da un amore smodato per i libri e la lettura. Attorno ai sette anni ho scritto i primi racconti, la scrittura è un qualcosa che mi accompagna sin da quando ho memoria. Devo aggiungere che il merito è anche dei miei genitori, perché quando ero molto piccola mi hanno letto tantissime storie e favole e mi hanno portato a visitare luoghi evocatori quali la Grecia, che poi sono sempre rimasti in me come archetipo »



Scorrendo i titoli dei suoi libri salta all’occhio la natura storiografica della sua produzione letteraria. Semplice passione o una scelta precisa di raccontare un determinato periodo storico per mezzo di personaggi illustri che lo hanno segnato?


«È la somma di una serie di aspetti: innanzitutto la forte passione che nutro per la storia sin dall’infanzia, la materia a cui, già dai tempi della scuola, dedicavo maggior tempo e attenzione. Ancora, credo via sia una naturale propensione in ognuno di noi a prediligere ciò che ci appassiona, affascina e che di conseguenza ci riesce meglio. La propensione e l’interesse verso determinate discipline o aspetti dell’esistenza, che nei più fortunati può sbocciare in un talento, si può riconoscere sin dalle fasi iniziali della nostra vita. Nel mio caso è stata decisiva la mia lunga permanenza in Francia, paese con una vasta tradizione storiografica nel campo delle biografie e dei memoriali. Lì mi sono “specializzata” in questo ambito letterario, convinta che un paese che non ha memorialisti non ha nemmeno memoria. C’è poi un altro aspetto che considero fondamentale e che ricorre nei miei libri, ovvero il fatto che amo raccontare le vicende viste dagli occhi degli sconfitti o di coloro che sono stati circondati da una fama ingiustamente negativa . Mi piace pensare di poter dare voce a quanti non ce l’hanno avuta o a quelli che, appunto sconfitti, hanno cessato di averla. Last but not least, direi che nel raccontare la Storie e le storie, tento di trovare un senso anche alla mia vicenda personale e familiare.»



Qual è, se ce n’è uno che spicca sugli altri, l’aspetto fondamentale e imprescindibile per essere un buon biografo?


«Ho sempre pensato che un biografo, ancor prima che uno storico, debba essere un buon psicologo. Tra colui che scrive e l’oggetto del suo studio, in questo caso un personaggio storico, deve crearsi un legame simbiotico e il vero lavoro consiste appunto in un’analisi psicologica e comportamentale del soggetto di cui si vuole raccontare. Alla base del lavoro deve esserci la voglia di scavare e ricercare, specialmente se si ha a che fare con gli “sconfitti”. Capire il perché della loro sconfitta e se la versione data dai vincitori è realmente quella accaduta. La parola verità, soprattutto in ambito storico, ha una connotazione quanto mai effimera, visto che spesso molti dei fatti che si danno per scontati sono avvenuti in modo diverso o sono stati strumentalizzati da chi era nelle vesti di narratore. La “favola convenzionale” di cui parlava Napoleone Bonaparte quando si riferiva alla verità storica, è il frutto della diversa visione delle cose che ciascuno di noi ha. Per questo credo sia impossibile scrivere una buona biografia senza immedesimarsi appieno nel soggetto scelto. Personalmente ho sempre rifiutato l’idea di storia come di una mera successione di causa ed effetto o peggio, come una sequenza meccanicistica. Credo piuttosto che le passioni degli uomini, i sentimenti, le invidie, gli amori, contribuiscano fortemente a determinare il corso degli eventi.»



Nella sua ultima analisi del periodo storico alle porte dell’Umanesimo, ha preso in considerazione due figure diverse, Isabella d’Este e Lucrezia Borgia, accomunate però dalla loro posizione all’interno dei giochi di potere. A distanza di secoli, come è mutata la figura della donna di potere? Ne esistono ancora come Isabella e Lucrezia?


« In gran parte, sì È quasi impossibile trovare oggi donne così, soprattutto perché gli scenari storici e culturali sono sensibilmente cambiati. Isabella e Lucrezia avevano dalla loro l’Umanesimo, un periodo di grande ecletticità e soprattutto un periodo "inclusivo", che consentiva di dare voce a molti aspetti diversi, se non contraddittori, della personalità. Sia Isabella d’Este sia Lucrezia Borgia erano signore molto colte, abili politiche, ottime amministratrici, adulate mecenati, "icone" della moda e delle tendenze. Entrambe regnavano non solo sulle loro corti, ma anche, idealmente, sulle altre.

Oggi ci sono molte donne di grande spessore, che spesso spiccano in un ramo specifico. Quello che manca è l’incredibile poliedricità che faceva eccellere Isabella e Lucrezia in molteplici campi.

C'è tuttavia un aspetto positivo, nella contemporaneità, ed è il cosiddetto "ascensore sociale". All'epoca delle "due cognate", si poteva diventare così importanti e autorevoli solo se “nate” già nel potere, perché figlie, mogli o madri di sovrani. In questa fase storica, invece, invece, le donne possono affermarsi grazie al merito, al talento, e non in virtù di un legame con una figura maschile di riferimento. A prezzo di grandi sacrifici e fatiche, è vero, ma affermarsi richiede sempre grandi sforzi.»





Parlando della sua esperienza politica: quanto c’è di suo padre nella scelta di impegnarsi pubblicamente nelle istituzioni?


«C’è molto di lui. Ho avuto la fortuna di nascere in un contesto familiare e sociale in cui era fortemente radicato il senso di “progetto Paese”, sia in mio padre che in molti dei suoi colleghi e conoscenti. Alla base di questa visione ci sono due elementi imprescindibili, cultura e merito. Credo che occorrerebbe recuperare questo insegnamento: impegno, dedizione, studio e fatica prima erano riconosciuti ed erano le basi su cui costruire il successo personale che sfociasse appunto in una più ampia visione collettiva. La mancanza oggi di un progetto di paese serio, la mancanza di meritocrazia e di selezione della classe dirigente ha creato un vuoto dove prima c’erano obiettivi precisi che stimolavano la società alla crescita. Senza una direzione comune si sta fermi e dunque si torna indietro.»



Condivide la tesi per cui è proprio la mancanza di merito una delle ragioni della crisi della classe dirigente italiana?


« In gran parte, sì. Quello che posso dire, e che attinge dalla mia esperienza di vita, è che le eccellenze in questo paese non sono mai mancate. Il vero problema è che l’interesse privato e personalistico si è sostituito quasi del tutto a quello collettivo. Quel particulare di cui parla Guicciardini ne I Ricordi dà vita a una summa di eccellenze che non portano a nessun totale. Ognuna di loro, in un certo senso, è come se fosse a sé stante e questo proprio per la mancanza di un progetto comune entro il quale tutto trova una sintonia.»



All’interno di quel progetto di paese abbracciato da suo padre, rivestiva un’importanza fondamentale il riammodernamento delle infrastrutture. A distanza di più di vent’anni dall’intuizione di Lorenzo Necci sulla Tav, crede che suo padre approverebbe il progetto così come è stato concepito?


«Non proprio. Quando mio padre ideò e iniziò a realizzare (insieme al suo gruppo di lavoro) l'Alta Velocità, essa doveva rappresentare il tassello di un mosaico molto più vasto. Diceva sempre che le infrastrutture devono dialogare tra loro in un sistema interconnesso e intermodale. Il quadruplicamento delle linee doveva servire non solo alla Tav, ma ai treni pendolari e ai treni merci. Mio padre dedicava un'attenzione particolare alla logistica e a tutta la filiera delle merci, dal trasporto, lo stoccaggio, allo smistamento. L’Italia è la piattaforma logistica e il ponte sul Mediterraneo per l’Europa. Dovremmo assolutamente valorizzare i porti, gli interporti e favorire e semplificare il passaggio delle merci verso il continente. Invece, purtroppo, vengono preferiti porti più a nord, come nel caso di Rotterdam, perché la loro valorizzazione e modernizzazione è stata portata avanti da anni. L'Alta velocità è fondamentale per modernizzare il paese e tenerlo "agganciato" all'Europa, ma non deve essere intesa come "un record di percorrenza", bensì come uno degli investimenti concreti nel campo delle infrastrutture. Un paese che non investe in infrastrutture, lo ripeteva sempre mio padre, non ha avvenire. A questo aggiungiamo poi che esse richiedono manutenzione. »



A fianco di quelle materiali, vi sono le infrastrutture immateriali. In che modo la loro valorizzazione può avere ricadute estremamente positive per il paese?


«Se si pensa bene il grande successo espansivo dell’impero romano poggiava sulla straordinarietà delle sue vie di comunicazione: quelle materiali, come strade, ponti e acquedotti, tanto quanto quelle immateriali, di cui il latino e i codici rappresentano lasciti che hanno segnato l’evoluzione civica dei popoli. Il paradosso è che siamo quelli che se ne sono giovati di meno. Oltre alle grandi intuizioni in campi artistici, l’Italia può vantare una tradizione politica di cui però spesso sono stati gli altri a giovarsi. Qui, riallacciandoci a quanto già detto, la cultura e la sua valorizzazione e diffusione ricoprono un’importanza vitale per il processo di crescita che in Italia sembra essersi arrestato.»



A proposito di progetti infrastrutturali, ritiene che l’Unione Europea difetti anch’essa di un piano comune sia per favorire gli interscambi viari che nell’abbattere i muri e i confini immateriali, non solo ancora oggi percepiti ma strumentalmente esasperati?


«Il problema è di vecchia data e poggia sul fatto che l’Europa, concepita in un modo, è poi diventata tutt’altro. Un’unione monetaria ed economica, ma senza dubbio non politica, ancora oggi non in grado di dotarsi di una sua Costituzione. Se da un lato le iniziali aspettative sono state disattese e il risultato è per molti aspetti deludente, dall’altra parte c’è stata la mancanza in Italia di politiche autonome forti di consolidamento del ruolo di primo piano che il paese dovrebbe rivestire nel Mediterraneo. Un tema strettamente collegato con la triste svendita dell’apparato industriale italiano a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Moltissimi asset, eccellenze straordinarie, sono stati ceduti a potenze straniere e di quell’enorme bacino che dava lustro al paese è rimasto ben poco. Grandi responsabilità, in tal senso, sono da ricercare nella politica, rea di non aver difeso quei presidi del sistema paese. Se è quindi vero e inoppugnabile che ci troviamo in un’Europa deficitaria sotto molti aspetti, è altrettanto vero che l’incapacità dell’Italia di incidere e rendersi protagonista all’interno della comunità è una realtà altrettanto certa.»



Dove si possono ricercare, se possibile, le cause di una così repentina e drastica svalutazione del patrimonio italiano degli ultimi trent’anni?


«Sicuramente quel turn over che c’è stato nella classe dirigente italiana e che coincide con la fine di una classe politica, coi suoi pregi e i suoi difetti, ha comportato la fine della difesa dei presidi strategici del paese. Facendo un parallelismo con il Rinascimento, in cui l’Italia era molto ricca e appetibile ma parimenti indifesa e violabile, negli ultimi venticinque anni si è ripetuto questo scenario. Purtroppo come allora siamo terra di conquista, capaci di esportare bellezza ed eccellenza altrove, ma di ricevere ben poco in cambio.»



di Alessandro Leproux

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