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Viaggio nelle elezioni europee: Lega intorno al 30% pericolo per governo; per il M5s necessario 25%



La Lega. Sopra o sotto il 30%, il governo rischia…

“Se la Lega supera il 30% stappo una bottiglia di champagne” ha detto, l’altro giorno, Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e alter ego di Matteo Salvini sia al governo che nel partito. La frase è rimasta un po’ in ombra perché, nel contempo, Giorgetti stava tirando una bordata dietro l’altra contro il premier Conte (“non è imparziale”) e contro il governo con l’M5S (“così non si va avanti”), ma ha un suo perché. Infatti, dopo mesi in cui la Lega, nei sondaggi, fin quando si potevano pubblicare, era data a percentuali stratosferiche (intorno al 35%, con punte fino al 37%), nelle ultime settimane è crollata, improvvisamente, intorno al 30% dei consensi.


Secondo sondaggi di istituti demoscopici famosi e affidabili (i cui nomi non possono essere rivelati, ma che l’ex ‘Lothar’ dalemiano, Fabrizio Rondolino, pubblica, ogni giorno sulla sua pagina Facebook, violando la par condicio ma col fine, dice, di “fare un favore ai cittadini”), e stante una percentuale di votanti bassa (56-62%) e un’alta percentuale di indecisi (13%), la Lega oscillerebbe tra il 28%-30% dei voti, il che vorrebbe dire ottenere, nel prossimo Parlamento Ue, circa 24 seggi.

Al di là dell’attendibilità di sondaggi fatti durante il loro divieto di diffusione, resta il punto. Una Lega che veleggia sul 30% (se non oltre) è un partito in grado di dettare legge dal giorno dopo le elezioni europee in poi. Sia, cioè, che Salvini voglia davvero aprire la crisi di governo sia che, invece, voglia limitarsi a imporre l’agenda sui suoi temi (decreto Sicurezza bis, flat tax, Grandi Opere, Autonomie), sia che voglia chiedere, a Di Maio, o la ‘testa’ di Conte (anche di questo si parla…) sia che voglia un rimpasto di governo per piazzare suoi uomini e donne in posti chiave dell’esecutivo (“Non sono interessato alle poltrone” dice però lui), stipulando un nuovo ‘contratto di governo’, beh, di certo il vicepremier avrebbe buon gioco a imporsi.


I 5Stelle potrebbero, al massimo, abbozzare, fare buon viso a cattivo gioco, perché, altrimenti, l’alternativa sarebbe, appunto, una crisi di governo manifesta e molto probabili elezioni politiche anticipate in autunno. Se, invece, la Lega non dovesse non solo non ‘sfondare’ il muro del 30% dei voti, sarebbe difficile consolarsi, per Salvini, dicendo che si tratta, comunque, di “quasi il doppio” dei voti alle Politiche (17%), per non dire delle europee del 2014 (Lega al 6,2% e 4 seggi). Insomma, il ‘tonfo’ sarebbe evidente, il nervosismo di Salvini crescerebbe a dismisura, la ‘gabbia’ dell’attuale coalizione di centrodestra – specie se FI dovesse ‘tenere’ i suoi consensi intorno al 10% dei voti (vuol dire sette seggi) – non potrebbe essere aperta. E, inoltre, dentro un partito che viene, ormai, definito come ‘leninista’, si aprirebbero malumori, se non contestazioni aperte, alla guida indiscussa finora seguita e impressa dal suo leader, cioè dal ‘Capitano’. Insomma, i mugugni dei governatori del Nord (Fontana, Zaia, solo Fedriga è fedele al ‘capo’ perinde ac cadaver), l’insoddisfazione dei ceti produttivi del Nord e del NordEst, l’insofferenza degli imprenditori – come ha dimostrato l’assemblea generale di Confindustria – verso un governo bollato come del ‘non fare’, e il campanello d’allarme suonato dagli stessi elettori, potrebbero aprire il campo a contestazioni della ‘linea’ seguita fin qui da Salvini, ridando fiato a oppositori interni rimasti, finora, nel più totale silenzio. Paradossalmente, dunque, anche una sconfitta (nel senso di una Lega molto sotto le aspettative, nei consensi) di Salvini aprirebbe una fase di profonda instabilità, dentro la maggioranza, perché molti colonnelli leghisti direbbero a Salvini, forse persino a brutto muso, “ma se perdiamo anche consensi, e doniamo solo il sangue, con quelli cosa ci stiamo a fare?”.

Insomma, sia un buon risultato che un cattivo risultato della Lega può, comunque, mettere in discussione il governo e la maggioranza gialloverde, dal premier agli assetti interni.


Per i 5Stelle la ‘linea del Piave’ è il 25% dei voti

Anche i 5Stelle, ovviamente, si giocano tutto, alle Europee. Reduci dal mirabolante risultato delle Politiche 2018 (33%) ma anche da una serie di tonfi elettorali in tutte le elezioni regionali che si sono susseguite da allora fino ad oggi (tranne il caso del Molise, in Basilicata, Sardegna, Abruzzo e in molti comuni siciliani l’M5S è scivolato a percentuali imbarazzanti, tra il 10 e il 20%, in Friuli anche sotto il 10), l’M5S e Di Maio possono permettersi di perdere, ma non troppo. I due dati dirimenti sono, ovviamente, le Politiche, ma pure le Europee del 2014, quando l’M5S prese il 21,1% dei voti e portò a Strasburgo 17 europarlamentari.

Sempre nei sondaggi di Rondolino (quelli ‘non autorizzati’) è dato in una forchetta tra il 22,6% e il 24,6% dei voti (vuol dire 18-19 seggi), ma con numeri che ballano in modo molto drastico da una parte all’altra d’Italia. Insomma, l’M5S starebbe per trasformarsi in un partito ‘sudista’ che al Nord, in generale, diventa la terza forza (dietro la Lega e anche il Pd), ‘tiene’, più o meno, al Centro e pesca i suoi consensi quasi solo nel Sud d’Italia.


Inoltre, il Pd – sempre a stare ai sondaggi – è a poco meno di un’incollatura dai 5 Stelle (forchetta tra 21,7% e 23,7%, vuol dire 18-19 seggi) e il sorpasso, seppure in discesa, resta una chanche che fa tremar le vene nei polsi a Di Maio.

Ecco perché, sia Di Maio che lo stato maggiore dei 5Stelle, si giocano tutto, a queste europee, non solo il governo. Nei gruppi parlamentari i malumori e i mugugni, solo sopiti, sono pronti a riesplodere e, davanti a un crollo nei consensi, molti deputati e senatori potrebbero fuggire via in massa. Davide Casaleggio, peraltro, fa sapere, con un’intervista a Le Monde, che la regola del divieto di cumulo dei due mandati consecutivi – la ‘tagliola’ storica del Movimento – non deve e non sarà modificata. Vuol dire che se il Paese precipitasse a urne politiche anticipate, Di Maio e quasi tutti i ministri ‘non’ potrebbero neppure ricandidarsi, mentre – per dire – Alessandro Di Battista potrebbe farlo. Insomma, con un risultato basso, più vicino al 20% che al 25%, Di Maio rischierebbe non solo di veder franare il governo, ma anche la sua stessa leadership nel Movimento.


di Ettore Maria Colombo

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