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Vincenzo D'Anna: “Candidatura Berlusconi conseguenza suo ego ipertrofico”

Aggiornamento: 16 gen 2022




SprayNews ha intervistato il Professor Vincenzo D'Anna, presidente dell'Ordine Nazionale dei Biologi e già prima deputato e poi Senatore con il PDL, partendo dal suo nuovo libro Il liberalismo perduto – L'Italia alla ricerca di un partito che non c'è edito da LaVela per parlare dello stato del liberalismo in Italia, arrivando a temi caldi come reddito di cittadinanza, green pass e Quirinale, in particolare in relazione al sogno di essere eletto di Silvio Berlusconi, l'uomo che nel '94 promise la rivoluzione liberale che D'Anna auspicava e vorrebbe ancora oggi vedere.


Buongiorno Prof. D’Anna, ci può parlare del suo nuovo libro “Il liberalismo perduto – L'Italia alla ricerca di un partito che non c'è”?

Il libro non ha una narrazione classica, ma è composto da alcuni editoriali che io ho fatto per alcuni giornali di Napoli: Cronache di Napoli e di Caserta che è il giornale più venduto subito dopo Il Mattino e per un sito social che si chiama B-Polis. Ho cominciato a scrivere per loro per diletto, ovviamente facendo l’opinionista, traendo gli spunti dalla cronaca, dalla politica, da quella che è la quotidianità, sempre concentrandomi su quelle che sono state anche le mie battaglie da parlamentare, vale a dire una riforma costituzionale e mettere in luce che in un paese dove tanti si dicevano liberali in realtà c'è da sempre una modalità di governo di tipo criptosocialista, con uno stato pervasivo, che si inserisce in tutti i gangli della vita economica e sociale, che quindi fa somigliare l'Italia più ad un regime socialista che non ad un regime liberale.


Trovo che la sua analisi sia corretta: poi uno può apprezzare o no questo tipo di sistema politico, ma è difficile negare che l'Italia funzioni così.

Le racconto un episodio. Io ho visto cinque presidenti del consiglio: Berlusconi, poi Monti, poi Renzi, poi Gentiloni. A ognuno di questi ho sempre chiesto quale tipo di governo rappresentassero sotto il profilo socio-economico, dell’imprenditoria, della strutturazione dello Stato e nessuno ha mai dato una risposta piena, hanno sempre tutti quanti glissato. Al di là di ogni etichetta che ciascuno si appunta sul petto, la modalità di gestione della cosa pubblica sembra essere per lo più la medesima, vale a dire l’uso della spesa pubblica a debito crescente. Tranne le parentesi dell’ultimo governo Berlusconi, di quello di Monti, di quello di Letta, per certi versi anche quello di Renzi. Ma alla fine si tratta di pannicelli caldi, ad una vera rivoluzione liberale, come era nelle intenzioni del primo Berlusconi, nessuno ci ha mai pensato, nessuno l’ha mai voluta fare. Si cambiava il maestro d’orchestra, ma lo spartito era lo stesso.


Secondo Lei, Mario Draghi potrebbe essere un soggetto politico capace di avviare una rivoluzione liberale nel nostro paese?

Certamente i numeri ce li ha, ma non basta avere dei requisiti. Bisogna avere il carattere ma anche la forza politica per mettere in pratica quel tipo di idee. Mario Draghi, oggi come oggi, al di là del sostegno più o meno vasto, più o meno accondiscendente dell’opinione pubblica per come viene rilevata dai sondaggisti è come il Papa: non ha una sua autonoma forza, né se la può creare nello spazio di qualche mese, come ha pensato di fare per esempio Giuseppe Conte. Questi processi devono venire da una base di consenso forte. Ce l’aveva Berlusconi, perché aveva riempito un vuoto nel centrodestra, ma soprattutto nel centro dello schieramento politico italiano, facendosi spalleggiare da liberali, socialdemocratici, ex socialisti, molti ex democristiani: tuttavia, dopo essersi circondato del meglio della intellighenzia liberale, alla fine li ha emarginati ed è finito nel ruolo di satrapo, nel di despota indiscusso.

Quindi Lei, alla fine, l’esperienza di Berlusconi la valuta come deludente rispetto alle possibilità?

Berlusconi era partito con un programma di grande pregio liberale come quello che fu messo su nel 1994 da Antonio Martino, da Giuliano Urbani, da Marcello Pera, da Paolo Del Debbio, da Giuliano Ferrara, da Gianni Baget Bozzo, Saverio Veltrone, Carlo Pelanda e altri - gliene potrei citare una quindicina, ivi compreso il neoacquisto Lucio Colletti, che si convertì al liberalismo dopo essere stato il critico e il filosofo del marxismo. Di questi alla fine qualcuno ha avuto uno scranno ministeriale, ma nessuno ha saputo, ha potuto o ha voluto opporsi alla deriva, non dico autoritaria, perché Berlusconi alla fine ha sempre ascoltato un sacco di persone, ma di un partito che non c’era, che era diventato un simulacro di partito in cui ogni cosa veniva ricondotta alle volontà e agli interessi che coltivava il capo. I migliori intellettuali come Ferrara finirono per garbatamente sfilarsi, e alla fine quindi chi la doveva poi la rivoluzione liberale, Toti, la Carfagna, Brunetta, la Pascale, la Rossi?

Quindi alla luce della sua vasta esperienza, parlando realisticamente secondo lei nel futuro italiano è possibile vedere una rivoluzione liberale?

Il sottotitolo del mio libro è appunto questo… che siamo alla ricerca di un partito che non c’è. Io ho elogiato nel penultimo editoriale la scelta di Mastella, il quale avrà tutti i difetti del mondo, avrà cambiato dieci posizioni partitiche e politiche, però ha fatto un ragionamento molto semplice, dice “io tengo mezzo milione di voti, se devo far parte di una confederazione tipo la Margherita, vorrei che mi venissero riconosciuti il numero di collegi per quello che io ho apportato e che potessi contribuire al bene di un partito, con uno statuto democratico, scalabile, che celebra congressi, che elegge e non coopta i dirigenti, io avrei voluto, vorrei la considerazione che merito”. Questa storia di vedersi cooptati, perché qualcuno è giovane, simpatico, ha la battuta felice, si crea un partito sull’onda della simpatia, il partito comincia col vento in poppa, ma nel giro di un anno, massimo due anni, finisce nel dimenticatoio…

Lo si può fare, facendo due cose: tornare ad una legge elettorale maggioritaria, perché si abbia una maggioranza scelta direttamente dagli elettori, guidata dal capo della coalizione vincente, che abbia un sufficiente numero di parlamentari per affondare il bisturi nei bubboni che vanno recisi e soprattutto la lotta per tornare al maggioritario, anche senza il paracadute del listino, cioè quello là bello classico, dando al popolo direttamente la parola e la scelta per poter poi proseguire con l’elezione di una assemblea costituente per la modifica della seconda parte della nostra carta costituzionale che è vecchia di 70 anni ed è figlia di un compromesso tra il maggior partito socialmarxista, socialcomunista d’Europa e i partiti di area laico e cattolica che si equivalevano e quindi molte cose in quella Costituzione, non la parte sui diritti, ma quelle sull’organizzazione dello stato sono figlie di un compromesso tra due forze che si equivalevano. Sto dicendo cose che sono note a tutti, però nessuno le mette in campo, perché ognuno ha da curare quel poco di potere che ha per mantenere una rete di contatti e quindi si rinnova il clientelismo, si rinnova il familismo amorale, tutto quell’insieme di cose che cingono di trasgressione e squalificano la politica e che autorizzano la magistratura a fare il bello e il cattivo tempo. La riforma della giustizia e del fisco, io credo, siano essenziali, come l’applicazione per il piano per il taglio delle aziende inutili. Pensiamo che abbiamo tagliato trecento unità parlamentari, privando cioè il popolo di trecento suoi rappresentanti, ma vediamo ancora circa trecentomila persone nei consigli di amministrazione delle diecimila partecipate dallo Stato! Che fine ha fatto il piano Cottarelli, qualcuno lo sa? si troverà in qualche cassetto polveroso di Palazzo Chigi.

La rivoluzione liberale significa quattro di queste cose senza se e senza ma: ma oggi ci può essere un progetto di questo tipo senza che ci possa essere una maggioranza? Va verificata questa cosa. Va verificata perché credo che abbiamo la prima voce di spesa, che è fatta di pensioni, che abbiamo tutto un ceto parassitario nella pubblica amministrazione, abbiamo una burocrazia inefficiente, abbiamo tutta una serie di aziende che sono serbatoi elettorali, che nessuno vuol toccare. Però poi alla fine, quando si propone qualcosa di serio e di buono, la risposta c’è stata, se c’è stata per Berlusconi, ci sarà anche per qualcuno che ha meno carisma di Berlusconi, ma gode di un partito, di una classe dirigente, di una rappresentanza, di una politica che aveva il suo primato rispetto ad altre cose.

Lei ha citato la giustizia: come vede i referendum che sono stati proposti sulla giustizia giusta dal Partito Radicale insieme alla Lega di Salvini e anche questa riforma della giustizia che in contemporanea il ministro Cartabia sta provando a proporre.

Io riconosco la buona fede dei Radicali che da sempre si battono sul tema: a suo tempo questo referendum fu già fatto sulla responsabilità civile dei giudici. Non credo a Salvini perché credo sia più una decisione tattica, comunque sia va bene anche Salvini in una nazione nella quale chi ha ragione, se la vede dare dopo 8, 10, 12 anni, dove chi capita sotto le grinfie dei pubblici ministeri che cercano spazi di notorietà sui giornali, può patire le iniquità che vengono fuori dalla legge sui pentiti, che le ricordo, è una legge che affonda le sue radici nella legislazione speciale contro le Brigate Rosse, cioè una legge di quaranta cinquanta anni fa, nella quale la prova la deve fornire l’accusato e non più l’accusatore, dove passano le parole più gaglioffe anche senza riscontro, perché un paese così ha una sua patologia di fondo. La giustizia civile non funziona. Nel meridione, dove ogni persona ti chiede una cortesia nessuno escluso, mi posso venire a trovare al centro di una indagine o di una situazione opacissima, senza che io abbia commesso niente. Vengo prima processato sui giornali e in televisione, quindi chi me lo fa fare a scendere in politica, a giocarmi reputazione, a giocarmi prestigio, autorevolezza che ho acquisito nelle mie attività come professionista o come cittadino, con il rischio di passare per un gaglioffo per un reato ipotizzato dalla DDA o da qualcuno? Faccio un esempio: tutta questa polemica che hanno fatto sulla decorrenza dei termini è una pantomima, perché oltre il 60% delle cause istruite si prescrive prima che il magistrato approvi la data per il primo grado di giudizio, questo significa che chi intraprende un’azione giudiziaria, almeno nel 60% dei casi, non ha niente in mano per poi sostenere l’assunto accusatorio. Poi io ricordo da buon liberale quello che diceva Lord Acton che il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente. Se io, nell’esercizio della mia attività professionale, qualunque guaio combini e qualunque vita io rovini non ne rispondo e non ne pago, come può qualcosa mai funzionare? Ma non c’è neanche da mettersi a fare il partito contro i magistrati, quello è un ordine giudiziario e non può essere un potere dello Stato, ovviamente è colpa della politica che non conta più niente, perché ha voluto la magistratura come braccio armato per fare politica.

Da liberale, che ne pensa invece del reddito di cittadinanza?

Io sono contrario. Le persone bisogna educarle al lavoro, non al parassitismo. Perché le società solidali, che sono quasi sempre le società liberali, distinguono tra chi non può e chi non vuole. Chi non può, perché è uno svantaggiato ed è vittima di tutta una serie di concause che ne impediscono la partecipazione attiva alla società, deve essere mantenuto e deve essere trattato con tutte le attenzioni e con tutto l’impegno economico necessario. Ma chi non vuole, cioè un giovane di 18- 23 anni, noi andiamo a dare un sussidio a lui e alla moglie se è sposato per non fare una mazza? Noi tassiamo quelli che lavorano e paghiamo quelli che non lavorano: che tipo di società possiamo creare? È un principio etico, si abituano al parassitismo queste persone, non le abitua a concepire il lavoro come mezzo necessario per il proprio sostentamento e migliorare la propria condizione di vita.

Sempre da liberale, che ne pensa del Green Pass?

Sono favorevole, perché fermo restando la libertà di ciascun individuo di decidere con riferimento a trattamenti sul proprio corpo, noi ci troviamo al cospetto di una gravissima epidemia che ha fatto circa due milioni di morti in tutto il mondo. Non stiamo parlando della varicella, del morbillo o della parotite. Fra l’altro non si tratta neanche di una pratica vaccinale, ma di una terapia genica che con tutte le problematiche degli additivi dei conservanti contenuti nei vaccini normali non ha niente a che vedere. Si chiama vaccino perché scatena degli anticorpi, ma per similitudine. Sono due cose distinte e separate. Quindi sono favorevole al green pass perché ai diritti inalienabili di queste persone di tutela del proprio corpo corrispondono i diritti che lo stato deve garantire a chi teme che l’epidemia possa prolungarsi e possa fare ulteriori danni: il Green Pass è un punto di equilibrio tra i due diritti.

Per finire, lei chi vedrebbe bene al Quirinale?

Gliela dico molto semplice, io vedo bene Marcello Pera. Vedrei bene il DeBenedetti liberale, vedrei bene qualche personalità del mondo della cultura, dell’economia, dell’imprenditoria, ma ovviamente persone che hanno un retroterra di vita ineccepibile, anche una donna.

Con riferimento a Berlusconi, lei cosa pensa?

Che è una manifestazione del suo io ipertrofico, che ha punte patologiche. Non fosse altro per le strumentalizzazioni che ne verrebbero presso tutte le cancellerie mondiali. Tirerebbero fuori di nuovo storie, registrazioni, fotografie, noi esporremmo la Repubblica Italiana ad una brutta figura. Punto. Poi, se mi chiede, se Berlusconi farebbe bene al Quirinale, le dico di sì, perché al di là della megalomania è un uomo che ha doti di genialità e di carattere che non hanno pari. Purtroppo se l’è rovinata lui la reputazione, non noi. Questo è cominciamo con i corazzieri in reggicalze, poi con la Minetti, con la D’Addario, con la nipote di Mubarak. L’evasione fiscale no, perché per quello meriterebbe una medaglia, uno che paga un miliardo di tasse in quattro anni e ha evaso l’1%, merita di essere fatto Papa in Italia.

Quindi secondo lei Draghi sarebbe il caso finisse il suo mandato invece che andare al Quirinale?

Sì, certamente, perché sinceramente il ruolo di Draghi al Quirinale dovrebbe essere un ruolo di moral suasion, una persona che conosce bene i meccanismi del diritto costituzionale o che ha una esperienza politica dietro le spalle che gli consente di annusare il vento, di optare per le soluzioni politiche più opportune, sapere interloquire con il parlamento. Draghi è un tecnico e lì al Quirinale non si fanno né leggi di bilancio né si devono fare riforme di sistema, quindi c’entrerebbe come i cavoli a merenda. È come mettere Immobile, che è il capocannoniere del campionato italiano, in porta. Dice: ma quello è il giocatore più famoso, io dico sì, ma se gli fai fare il centroavanti. Se lei mette il dentista a fare il giornalista e viceversa, saranno dolori.

Di Umberto Baccolo.

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