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Zingaretti propone nuovo simbolo e nuove alleanze, i dem 'tentati' da un governo con i 5Stelle



Dietro la proposta ‘aperturista’ (il simbolo del Pd “non è un dogma”, lista “unitaria e aperta” alle elezioni europee) del principale candidato alle primarie del Pd, Nicola Zingaretti, oggi governatore del Lazio, c’è molto di più di quanto non appaia. Infatti, il tema – che fino a ieri appariva peregrino, anzi veniva nettamente smentito da quasi tutti i principali candidati alle primarie dem – di un rapporto ‘sfidante’ con i 5Stelle, fino alla possibilità di farci, se non un’alleanza, un ‘governo di salvezza nazionale’ insieme, una volta che, presto o tardi, l’attuale governo gialloverde entrerà in crisi, sta tornando di pressante attualità e fa sempre più proseliti, tra i maggiorenti del Nazareno. Come dimostra anche lo ‘scambio di cortesie’ tra Pd e M5S a livello parlamentare su un tema assai caro ai grillini, quello della democrazia diretta. Ma meglio andare per ordine e mettere in fila i fatti.


Dopo un discreto silenzio e dopo, anche, una sostanziale coltre di nebbia sulla sfida interna in vista delle primarie – tema di cui, ormai, la grande stampa neppure si occupa più – Zingaretti, oggi, è tornato a battere un colpo con un’intervista rilasciata al quotidiano romano Il Messaggero. Due, appunto, le novità del candidato ad oggi più forte, in vista delle primarie del 4 marzo. La prima riguarda il nome (e, di conseguenza, il simbolo) del Pd che, dice ‘Zinga’, “non è un dogma” e, quindi, non è neppure detto che comparirà, alle prossime elezioni europee del 26 maggio, quando i dem si presenteranno con una lista “unitaria e aperta” di forze che si richiamano ai valori dell’europeismo. La ‘P’ verde e la ‘D’ bianca corrono il rischio di scomparire dalla scheda, all’apparenza, senza grande rammarico da parte di chi il 4 marzo potrebbe essere alla guida del partito. Il governatore del Lazio e candidato alla segreteria del partito dice chiaramente che, per le Europee, «dovremo costruire una nuova piattaforma per cambiare l’Europa». Per Zingaretti, «serve una lista forte, unitaria e aperta: dobbiamo aprirci e allargarci, aggregare forze culturali, economiche e sociali perché c’è un’Europa da rifondare”. Il ruolo del Pd dovrebbe quindi essere quello di farsi “promotore” di una lista ampia “con il protagonismo degli intellettuali del mondo della ricerca e della scuola, del mondo del lavoro, dei giovani e dell’associazionismo».


Una proposta su cui, da tempo, è d’accordo anche Martina, il principale competitor di Zingaretti alle primarie, il quale – in un’intervista di un paio di settimane fa data a Qn – già aveva proposto una soluzione di questo tipo su entrambe le direttrici (nome e simbolo nuovi, lista unitaria e aperta). «Sì a una lista aperta che si rivolga ai tanti democratici e riformisti alle Europee» risponde Maurizio Martina, intervistato dall’agenzia Agi. Poi aggiunge: «Per le europee, che coincideranno tra l'altro anche con il voto in tanti comuni – continua Martina - dobbiamo promuovere una lista aperta che si rivolga ai tanti democratici e riformisti che vogliono battersi per la nuova Europa. Per me non si tratta di rinunciare al simbolo Pd ma di concorrere a una proposta più larga. So che Carlo Calenda insieme a tanti altri sta lavorando a un Manifesto di progetto e guardo con molto interesse a questo sforzo. Aspettiamo di conoscerne i contenuti ma è di certo una prospettiva interessante». Prima, però, per Martina, il Pd deve riorganizzarsi: «Le nostre regole interne devono cambiare” e “deve essere superato il doppio ruolo segretario-candidato premier”. “Intanto dico che – sostiene Martina - serve un segretario che faccia solo il segretario e non abbia altri incarichi perché questo lavoro deve essere fatto sette giorni su sette. Poi il Pd deve cambiare. A cominciare dal dare più peso con i referendum interni sulle scelte più importanti agli iscritti. Poi bisogna fare un grande lavoro sui territori per coinvolgere nuove energie e valorizzarle, a partire dalla presenza di giovani e donne nelle nostre liste». Progetti e idee non tanto dissimili da quelli di Zingaretti, il quale, non certo a caso, ha già proposto (e, di fatto, ha già ottenuto il suo silenzio-assenso) che l’ex premier, Paolo Gentiloni, assuma la carica di presidente del ‘nuovo’ e rinnovato Pd.


Anche Matteo Richetti, che oggi appoggia Martina, ‘apre’, pur se moderatamente, all’idea di Zingaretti: «Per me il Pd è un patrimonio di cui andare orgogliosi, ma come con l’Ulivo nel dare forma alla coalizione ci fu una gradualità anche rispetto alla presenza dei partiti, credo si possa immaginare un simbolo nuovo che contenga le forze politiche che lo compongono, ma non solo», spiega precisando che il simbolo «va di pari passo con il progetto: se il progetto è nuovo e ampio sarebbe improbabile pensare a non modificare e innovare la forma oltre che la sostanza». L’idea (ri)lanciata da Zingaretti “non dispiace” all’ex ministro Carlo Calenda il quale lesto annuncia di essere “pronto” di candidarsi alle Europee, sogno che coltiva da tempo e qualsiasi segretario dovesse vincere le primarie: «Rispondo di sì, ma al momento non voglio dire di più. La questione se insieme al nome della lista, rimangano o meno i simboli dei partiti che la comporranno non mi appassiona. Importante è che sia una lista unitaria di forze europeiste». E anche se il terzo candidato oggi più accreditato nei sondaggi interni, Francesco Boccia, forte di un buon 16%, dice di “tenere molto” al nome e al simbolo del Pd, ove arrivasse davvero terzo potrebbe essere proprio lui, Boccia, l’ago della bilancia utile a far pendere la maggioranza interna congressuale verso Zingaretti (ove nessuno dei tre principali sfidanti raccogliesse, nelle primarie aperte del 4 marzo, il 50% dei voti) dentro quell’Assemblea nazionale che si troverebbe, a quel punto, a eleggere il segretario. E, guarda caso, Boccia – sul punto del dialogo con i 5Stelle – la pensa proprio come Zingaretti, e come tutti i suoi, per non di Mdp (Speranza), di Bersani e di D’Alema che, ri-guarda caso, vogliono che l’intero centrosinistra assuma un atteggiamento ‘sfidante’ verso l’M5S. Fino, appunto, a farci un governo insieme? Ci pensano, ormai da tempo, a tale prospettiva, sia da fuori il Pd (Mdp soprattutto) che dentro. I vari Franceschini, Orlando, lo stesso Gentiloni, e pure Cuperlo che la ‘sfida’ del governo insieme ora la teorizza.


Perché dietro, appunto, c’è molto altro. Il Pd si rende conto che gli scricchiolii presenti nella maggioranza gialloverde sono destinati ad aumentare e la tensione tra i vicepremier, Salvini e Di Maio, è pronta ad esplodere. Ma non potendo, ovviamente, giocare di sponda con la Lega – anche se proprio domani, sabato, Pd e Lega saranno fianco a fianco nella manifestazione ‘Si Tav’ organizzata a Torino – non resta, per rientrare dalla porta principale nel Grande Gioco della Politica, che tentare di creare un asse con i 5Stelle. Due i segnali più importanti. Il primo arriva a livello di strategia parlamentare. Il Pd ha furbescamente – ma c’è anche chi dice ‘sciaguratamente’ – proposto un emendamento, a prima firma Stefano Ceccanti, che ha portato ‘da zero’ al 25% la soglia di accesso affinché un referendum propositivo – uno dei pezzi del ‘pacchetto Fraccaro’ di riforme costituzionali – possa essere valido. Una scelta di dubbia ragionevolezza, e forse sciagurata, che i pentastellati hanno subito accolto, votando sì, per ora solo in commissione Affari costituzionali, alla norma Ceccanti. E così, al di là delle perplessità dei tanti costituzionalisti e giuristi – di cui, fino a ieri, il Pd si faceva alfiere e paladino – che ritengono ‘una follia giuridica’ permettere di avere dei quorum così bassi per referendum che potrebbero minare il tessuto stesso della Costituzione, oltre che di un corretto rapporto tra popolo e Parlamento, resta il punto politico.


Il Pd ha deliberatamente giocato di sponda con l’M5S, traendolo d’impaccio anche dall’ostilità manifesta della Lega a far incardinare davvero il ‘pacchetto Fraccaro’. Il secondo punto è tutto politico. Si dice che persino Renzi, pur se in posizione sempre più defilata, rispetto al Pd, e con la testa ormai rivolta altrove (se a fondare un nuovo partito o solo a ‘godersi lo spettacolo’ da fuori non si capisce bene) non vedrebbe più di cattivo occhio un governo che potrebbe nascere sull’asse M5S-Pd oltre che, ovviamente, sulle macerie dell’asse Lega-M5S, presumibilmente dopo le elezioni europee quando le tensioni, dentro la maggioranza di governo, potrebbero esplodere in via definitiva. E dato che Mattarella farebbe di tutto pur di evitare di portare il Paese a elezioni anticipate, un nuovo governo potrebbe nascere solo con due maggioranze: una di centrodestra, ma che dovrebbe essere supportata da un numero di transfughi pentastellati altissimo (circa 50 alla Camera e 20 al Senato), numero ad oggi impensabile che Lega e FI possano trovare, o sull’asse M5S-Pd, questa potrebbe essere l’impervia via, e l’ardua scommessa, su cui il gruppo dirigente democrat – chiunque vinca il congresso, di certo se fosse Zingaretti – si appresterebbe ad acconciarsi, pur di rientrare in gioco. Naturalmente, a una maggioranza del genere, basterebbe che venissero a mancare solo una manciata di senatori dem (lo zoccolo duro dei renziani, per dire) per farla morire sul nascere, ma – in uno scenario forse fantapolitico, forse no – lo stesso Renzi potrebbe dare il suo placet. Magari per poter dire, a breve distanza e dopo che tale governo implodesse, il più classico degli ‘ve lo avevo detto, io’, o anche solo prendere la palla al balzo per provocare la scissione nel Pd.


di Ettore Maria Colombo

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