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Cultura, l’attore Poggi: «Prima vendeva libri chi sapeva scrivere, oggi chi va a un reality»



Pierfrancesco Poggi parla di Molière, il suo ultimo libro, ma anche della sua carriera, dell’amore per il teatro e delle difficoltà relative a un mondo della cultura, poco sostenuto dalle istituzioni e dove tende a emergere chi è popolare e non chi sa recitare o scrivere.


Come sta andando il suo ultimo lavoro?


«Essendo uscito il libro in piena pandemia, lo abbiamo ricominciato a pubblicizzare con uno spettacolo fatto insieme a Neri Marcorè, il 30 novembre. Ho cominciato, quindi, da quella data a proporlo. Si tratta di un qualcosa ancora di nuovo».


Come nasce l’incontro con Marcorè?


«Ci eravamo ritrovati nella stessa trasmissione radiofonica Black Out. E’ un amico che come me è appassionato di musica, suona, ha una comicità di grande qualità. L’incontro, quindi, tra uno della mia generazione e uno della sua, ovvero tra il vecchio e il nuovo, è stato molto divertente. Lo spettacolo è venuto spontaneo e apprezzato».


Quali saranno i suoi prossimi impegni?


«A marzo sarò al teatro Off/Off a Roma, in via Giulia, con lo spettacolo “C’era una volta… il teatro nelle cantine” e poi sto completando un nuovo libro. Dopo la pandemia, c’è stata un po' di flessione e quindi siamo in attesa che il settore si riprenda».


Di cosa tratterà?


«E’ il prequel dei lavori che ho già scritto, ovvero quando il commissario Passalacqua esordisce nella sua professione a Napoli, occupandosi del quartiere, piuttosto vivace, di Montecalvario».


Ha parlato di ritorno del teatro nelle cantine. Quale consiglio si sente di dare a chi adesso inizia la carriera?


«Non bisogna mai smettere di studiare e di esercitarsi, un po' come gli atleti. Il nostro mestiere è molto simile a quello degli sportivi. Bisogna mantenere vive certe tecniche in modo da farsi trovare pronti quando escono le occasioni».


Ci sono giovani che, a suo parere, possono emergere?


«Sui giovani non sono un esperto. Ci sono alcuni talenti ormai affermati, come Filippo Timi, che mi piace andare a vedere e Michele Riondino. Tra gli attori ragazzi, poi, c’è la generazione di mio figlio in cui c’è più di qualcuno bravo. Preferiscono, però, la fiction e le serie televisive al teatro».


Come incentivarli a fare il contrario?



Ha avuto un maestro a cui si è ispirato?


«Ai miei tempi c’era solo l’imbarazzo della scelta. Facendo sia la prosa, la musica, ho avuto dei miti, come Giorgio Gaber, Dario Fo e Gigi Proietti. Questi sono i personaggi in cui mi riconosco».


Quale il momento più stimolante della carriera?


«E’ stato quando facevi uno spettacolo e il pubblico veniva a vederti pure se non avevi una popolarità televisiva, quindi tra gli anni sessanta-ottanta. Non c’erano pregiudizi. In quel periodo, la partita si giocava sul palcoscenico. Non c’era bisogno di altre credenziali».


Nel teatro esiste la meritocrazia?



Ha mai pensato a un reality o di fare qualche fiction?


«Qualche volta mi tengo in esercizio quando un regista amico mi chiama per un cameo. Ho fatto, ad esempio, il padre di Emanuela Loi nella fiction sulla poliziotta uccisa con la scorta di Borsellino. L’idea di fare il genitore di Greta Scarano mi divertiva molto. Lo faccio, comunque, solo quando mi cercano gli amici o semplicemente per piacere. In genere, però, soprattutto i giovani oggi mettono prima la fiction e poi il teatro, a differenza di un tempo quanto invece accadeva il contrario».


Di Edoardo Sirignano

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