di Michele Lo Foco
I festival, come noto agli operatori, non sono veicoli di successo, o perlomeno non lo garantiscono. Alcuni produttori saggi addirittura evitano i concorsi per non contaminare con il termine arte e cultura la commerciabilità del prodotto e non molti anni fa i distributori home- video toglievano dalla fascetta qualunque riferimento a festival perché avrebbe inibito l’acquisto.
Ciò non toglie che nella spasmodica attività di controllo di ogni fonte di conoscenza dell’audiovisivo le sinistre abbiano compreso i maggiori festival, e tra questi in particolare Cannes, che ha il vantaggio di includere il maggior mercato commerciale del mondo. Pertanto, sull’onda ancora non attenuata del potere totalizzante delle sinistre, Cannes ‘23 accoglie i suoi figli prediletti, e cioè la Rohrwacher che è la campionessa, non di ricavi, non di pubblico, ma di partecipazione a festival, Bellocchio, anche esso in continuo movimento masmediologico, e soprattutto Moretti, che non sapendo più di cosa parlare, parla di se stesso e con se stesso cercando una identità. Fuori Garrone, che forse era il regista più originale, ma non tanto da farlo preferire ai campioni della sinistra più sinistra, quella non molla l’osso.
Neanche da dire che un grande maestro come Pupi Avati, con il suo bellissimo e commovente film che ho avuto il privilegio di vedere in visione privata, non è stato preso in considerazione, come peraltro non era stato considerato per gli Oscar da una commissione Anica la cui scienza cinematografica era paragonabile solo a quella di Rutelli, né per i David che lo hanno ignorato scientificamente.
Le novità di una cultura non omologata a sinistra fanno molta fatica ad imporsi soprattutto in ambiti gestiti dai funzionari di partito: anche Venezia è ancora presidiata, come peraltro il festival di Roma, e ci vorrà la buona volontà del Ministro Sangiuliano per abbattere il muro di Cicutto e della Malanga, che non saranno certamente disposti a dimettersi, diversamente da quello che fece una donna straordinaria come Luciana Castellina all’arrivo di Urbani.
Fabiano Fabiani, invece, colonna portante di una sinistra scolpita nella roccia, non solo non si dimise, ma nominò in zona Cesarini del suo mandato Tonino Morè quale amministratore unico dell’Istituto Luce, per spregio ad un ministro di centro destra.
Poi, come sappiamo, le sinistre, agevolate nel loro compito totalizzante da Gianni Letta infiltrato in Forza Italia, sono riuscite a mantenere le redini della cultura nonostante tutto e tutti.
Alemanno, tormentato da Repubblica, ai tempi del suo mandato, nominò solo gente di sinistra, e a capo della Cultura della Capitale un signore di cui si sono addirittura perse le tracce.
La realtà politica è che mentre le fazioni si scannano per un posto all’Eni o all’Enel, che muovono milioni di euro ogni firma, la Cultura, di cui l’Italia dovrebbe andare fiera, ed il turismo, che per noi è come il petrolio, non suscitano alcun entusiasmo, e vengono riservati o ai figli di qualcuno che conta o a completamento di trattative diverse e ben più corpose.
Corposo invece è l’interessamento per le donne dello spettacolo, come diceva scherzosamente il grande produttore Leo Pescarolo.
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