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Immagine del redattoreMarzia Novellini

Fabrizio Cicchitto a 'Il Tempo': Tutte le fragilità dell’intesa Pd-M5s

«Giuseppi» aveva l’obiettivo di far cadere il governo. E per farlo non ha esitato ad allearsi con Salvini e Meloni.



La partita del Colle non ha lasciato macerie solo nel campo del centrodestra Anche a sinistra le ambiguità grilline rovinano i piani dei vertici del Nazareno.



I n questi giorni l’attenzione è stata concentrata sulle divisioni nel centro-destra. Ma anche il campo opposto è disseminato di mine e trabocchetti, solo che il gruppo dirigente del Pd è maestro nella dissimulazione. Poi fra i leader del centro-destra e del centro-sinistra c’è stata una grande differenza nell’approccio tattico alla vicenda. Enrico Letta ha subito capito quello che invece non ha capito Salvini, che così si è fatto danni e autogol dall’inizio alla fine: il punto fondamentale era che nessuno dei due schieramenti aveva la maggioranza assoluta e che la maggioranza relativa (453 grandi elettori) era assolutamente sulla carta e comunque non aveva come conseguenza automatica quella della elezione di un esponente di centro-destra nettamente caratterizzato.


Le tattiche adottate sono state la conseguenza di questa differente valutazione. Enrico Letta, che notoriamente è un cultore del gioco del calcio, ha imitato un allenatore del passato, Nereo Rocco, inventore del catenaccio (8 giocatori in difesa più il portiere, 1 a centrocampo e 1 solo in attacco, difesa a oltranza e contropiede). Invece forse del tutto inconsapevolmente Salvini ha preso come modello Zeman che giocava tutto proiettato all’attacco: poteva segnare anche tre gol, ma prenderne sei. In questa occasione Salvini non ha segnato neanche un goal, ma ne ha incassati almeno sette.


Ciò non toglie, però, che, alla resa dei conti, se Sparta piange Atene non ride. Infatti in tutti questi mesi una larga parte del Pd, da Zingaretti a Enrico Letta, ma specialmente al profeta Bettini, ha ritenuto che i suoi problemi di fondo erano risolti con l’alleanza strategica con il M5s il cui capo politico Conte poteva addirittura essere considerato in prospettiva «il punto di riferimento fortissimo dei progressisti». Ora, al fondo il Pd era profondamente diviso su Draghi, se eleggerlo o meno presidente della Repubblica con una serie di motivazioni attinenti proprio alla strategia politica e ai contenuti dei programmi. Tutti però erano convinti sul suo ruolo di presidente del Consiglio. Senonché nel corso della vicenda per l’elezione del presidente della Repubblica, con notevole raccapriccio, i dirigenti del Pd hanno scoperto che non solo Conte non voleva Draghi presidente della Repubblica, ma che se poteva lo avrebbe anche fatto saltare volentieri da premier, non disdegnando le elezioni anticipate. Tutto ciò è diventato chiaro quando i giochi si sono fatti più serrati ed è risultato evidente a tutti che Salvini non riusciva a fare il king maker. Allora proprio Conte è scattato in un’operazione, quella imperniata su Elisabetta Belloni, che se fosse andata a compimento avrebbe provocato ben due disastri. In primo luogo l’Italia, diversamente dall’Egitto, non è un paese nel quale il capo dei Servizi, indipendentemente dalla persona, può essere nominato presidente della Repubblica come se si trattasse di una cosa normale; in secondo luogo sull’operazione Belloni si era abilmente inserita Giorgia Meloni: in quel modo avendo abboccato all’amo Salvini ed essendo rimasto fermo il «catenacciaro» Enrico Letta si stava formando una maggioranza a tre fra Lega, M5s FdI ben diversa da quella di governo. I due protagonisti consapevoli dell’operazione, cioè da un lato Conte, dall’altro lato Giorgia Meloni, avrebbero entrambi fatto «bingo». Giuseppe Conte, buttata la maschera, si è rivelato uno spericolato pokerista che in un colpo solo si liberava dell’usurpatore Draghi sia come presidente della Repubblica, sia come premier: a quel punto la vendetta era pienamente consumata ed eventuali elezioni anticipate non spaventavano affatto l’avvocato. Attraverso di esse si sarebbe realizzata una strage di grillini storici, in primo luogo l’odiato Di Maio. A sua volta Giorgia Meloni, che si è mossa ispirata non da rancori personali, ma dalla politica, avrebbe fatto cadere il governo Draghi dal quale si era auto esclusa e avrebbe ottenuto le elezioni anticipate.


Difronte all’inerzia e allo sbigottimento dei leader del Pd, da Enrico Letta a Dario Franceschini, l’operazione sarebbe riuscita se con grande prontezza di riflessi non fossero intervenuti Renzi e a ruota Berlusconi, Quagliariello, Toti, il ministro della Difesa Guerini e il ministro degli Esteri Di Maio (che infatti adesso Conte vuole assassinare). Dopodiché essendo stato sgombrato il campo dagli incursori Enrico Letta giocando di rimessa ha potuto incanalare il tutto verso la rielezione di Mattarella accolta con sollievo da tutti coloro che temevano una sorta di scatafascio e di elezioni anticipate. Lo stesso Letta però, e con lui tutto il gruppo dirigente del Pd, ha potuto misurare fino in fondo il fatto che il M5s è ben altro che una genuina «costola della sinistra», ma è un campo popolato di serpenti di tutti i tipi per i quali i termini destra o sinistra valgono solo nei comizi domenicali. Di conseguenza è evidente che il governo Draghi ha più problemi al suo interno che non con l’opposizione e questi problemi hanno due nomi, quello di Salvini e quello di Giuseppe Conte.

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