di Michele Lo Foco
La querelle sollevata dall’attore Favino in merito alla presenza di attori italiani per interpretare personaggi italiani in film stranieri, al di là del merito, dimostra come questi ultimi anni di politica dello spettacolo forgiata da Franceschini abbiano modificato a tal punto le dinamiche del settore da far peccare di narcisismo anche l’attore più fortunato del momento.
Favino ha bisogno di ripassare le tabelline: innanzitutto il creatore, il propositore, l’anima di un film è il produttore, parola che in Italia è stata offuscata dalla parola “burocrate”.
Il produttore vero, quello di cui parlo io, è colui che abbraccia un progetto nella speranza di riuscire a costruire una realizzazione filmica, e che pertanto spende il proprio tempo e talvolta un po’ di soldi per dare concretezza all’idea. In questo è coadiuvato, se non sovrastato, dal regista, che è colui che dirige le operazioni normalmente nel senso indicato dal produttore. Siamo all’ ABC. L’attore protagonista è il primo oggetto del desiderio del produttore, spesso condiviso con il regista, che deve riflettere o le ambizioni internazionali del film o le ambizioni nazionali o al minimo quelle regionali e locali. Ovviamente il costo dell’attore è coerente con tali ambizioni.
L’attore che deve soddisfare le ambizioni internazionali del film non può non essere un attore conosciuto da tutti o quasi nel mondo, non è un concetto difficile da comprendere, e questo perché il film è un prodotto commerciale e non come da noi un prodotto statale i cui risultati economici non interessano a nessuno.
Il film è un prodotto aleatorio, non è un tondino di ferro, e il produttore vero, non quello nostrano, sa di rischiare i propri capitali o quelli dei partecipanti qualora le sue scelte, e quelle del regista, non siano apprezzate dal pubblico. In questo senso, se è sua la responsabilità, non può non essere sua la scelta del regista e degli attori, siano essi famosi o sconosciuti. Non c’è bisogno di essere degli esperti per ricordare il Gattopardo, Morte a Venezia, il Padrino, Profumo di donna, grandi capolavori coronati da Oscar e interpretati da grandi attori stranieri.
Questi film non avrebbero avuto nessuna circolazione se gli attori, peraltro straordinari, non fossero stati riconoscibili ovunque.
In Italia la degenerazione del concetto di libertà editoriale nasce dal ruolo egemonico dei burocrati: il produttore è genuflesso davanti a coloro che gli tolgono il rischio imprenditoriale e gli consentono di guadagnare prima che il film esca nelle sale. Questo è il motivo per il quale il cinema nazionale è così depresso da non contare nulla né in casa né all’estero, e non sono certo le partecipazioni a Venezia a poter operare il miracolo, in quanto i festival, pur nella loro valenza divulgativa, non hanno ora né prima determinato il successo di un prodotto, ma semmai lo hanno fotografato.
Favino dovrebbe riflettere sulla circostanza che più viene limitata la libertà del produttore, e maggiori orpelli vengono messi allo sviluppo della progettualità, e più grande è il rischio che il cinema di casa nostra diventi una pozzanghera di convenzioni ed ipocrisia, mentre quello straniero faccia man bassa di soldi statali e di incassi da portare rapidamente all’estero.
Ma la dichiarazione di Favino svela anche un’altra malformazione del nostro cinema, quella per la quale ad un certo numero di attori è concesso di interpretare qualunque ruolo, indipendentemente dalla loro aderenza al personaggio.
L’attore determina anche il costo del prodotto, che è ormai una spirale impazzita cui nessuno dedica attenzione.
Pertanto eliminato il produttore, il costo del film, e la sintonia dell’attore al personaggio, cosa resta della settima arte così definita dal critico Ricciotto Canudo nel 1921?
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