di Michele Lo Foco
La serialità che ha invaso le nostre piattaforme di riferimento, e che ha conquistato spazi e successi, in realtà ha antenati illustri.
Difficile immaginare la folla a New York che aspettava in porto la nave e la nuova puntata dei racconti di Dickens, ormai romanziere sulla strada di diventare famoso. Difficile pensare che Dostoevskij e Tolstoj pubblicassero i loro complessi e affascinanti romanzi a puntate: eppure quello che all’inizio era un sistema usato dagli scrittori per guadagnare un po’ di soldi frazionando l’impegno, ed un’intuizione di editori intelligenti e pratici per irretire i lettori, divenne poi una modalità commerciale ed una strategia di vendita. Grandi, straordinari scrittori creavano l’attesa.
Ai giorni nostri quello che era il format degli sceneggiati classici è stato ripreso ed adattato, al punto che il racconto frazionato prosegue di puntata in puntata, quasi senza fine, e viene somministrato ai poveri utenti in un’unica soluzione, senza attesa, permettendo che le puntate vengano viste una dopo l’altra senza soluzione di continuità, da una ricerca bulimica di saturazione.
Il racconto, così centellinato, diviene la risposta all’attesa delle persone, e così facendo l’attesa diventa la “mano invisibile” che guida gli scrittori verso un risultato gradito e popolare.
La nostra fiction ha avuto anche forti contrazioni durante gli anni nei quali la moltiplicazione delle storie e delle interpreti era più importante del racconto. Le miniserie in due puntate, volute fortemente dal direttore della fiction Saccà, nonostante non incontrassero i favori degli acquirenti esteri, gli risolvevano un problema di piazzamento di registi e di attrici che era il suo cruccio principale. Rispetto alla lunga serialità di Stefano Munafò, cui si devono i grandi successi del maresciallo Rocca e di Montalbano e non solo, le miniserie trasmesse domenica e lunedì sera rappresentavano l’uscita del prodotto italiano dal mercato europeo, e la trasformazione della serialità in TV movie di insolita lunghezza e totale modestia.
Netflix, la piattaforma definita, dalla Guardia di Finanza, società occulta, più tardi sorprese il mondo con la sua teoria del “tutto e subito”, storie da vedere di seguito anche stando svegli tutta la notte per arrivare al termine del racconto.
Sembrò allora una rivoluzione, all’attesa ansiogena subentrò l’ingordigia.
Oggi è tutto programmato con questo format, solo che le puntate non sono più solo ratei di un racconto ma anche di reality, di narrazioni d’ambiente, di applicazioni lavorative.
E’ tutto ridotto a pezzi, in modo che lo spettatore possa fruirne in assoluta libertà, fermandosi, rifiutando di proseguire, appassionandosi all’argomento: è un buffet sempre pronto a qualsiasi ora e per tutti i gusti.
Poi, da un’altra parte, c’è il cinema, che è un argomento diverso, un concentrato di situazioni, una linea che unisce due punti.
E’ una forma d’arte, forse normalmente no, è un modo di esprimersi, è un eccesso di significati, talvolta, perché no è una esigenza, un modo di vivere.
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