di Michele Lo Foco
Esaminando i meccanismi di assegnazione dei contributi statali, figli della logica Franceschini e del cinquantenne Nastasi, prototipo del potere sommerso di Gianni Letta (sempre meno sommerso almeno a giudicare dal faraonico compleanno), viene spontaneo domandarsi da dove siano state tratte alcune definizioni.
Premesso che per giovani autori, cui è intitolata una sezione, si intendono coloro che hanno meno di 35 anni (e che pertanto possono non essere poi giovani), e che esiste poi una categoria denominata “opere prime e seconde“, che verrebbe da immaginare destinata anch’essa ai giovani, che invece consente anche ad un vecchio di esercitarsi per la prima o seconda volta nell’arte cinematografica, quella che è realmente la “summa” della filosofia della sinistra discrezionale è la parola “difficile”.
Esiste una categoria definita “film difficili e di particolare qualità artistica”. Cos’è un film difficile, soprattutto perché un produttore dovrebbe decidere di produrlo?
Se il film è un prodotto dell’industria, o quantomeno dell’artigianato, destinato al pubblico, questo prodotto dovrebbe avere le caratteristiche che lo rendano attraente, quanto meno interessante, per la trama, gli attori, la regia. Se tutto questo manca, se gli elementi del film sono negativi, se il destinatario del prodotto è un raro spettatore dai gusti particolari, perché mai dovrebbe circolare un prodotto di nessun interesse generale?
Se Fiat decidesse di produrre un’auto orrenda, destinata ad automobilisti contorti e sofisticati, lo Stato dovrebbe aiutarla a commercializzarla? Qualcuno dirà che è avvenuto.
Tornando al cinema, la parola “difficile” a chi si riferisce? Al soggetto del film o al pubblico? E’ difficile un film di Bisio, di Mezzapesa con Elodie protagonista, o “Gianni Minà una vita da giornalista”, un film di Graziella Gualano, Emanuela Mortozzi, Susanna Ferrando, Giorgio Pasotti? Oppure questi sono film di particolare qualità artistica? E’ ovvio che la mente nastasiana ha elaborato un sistema che serve per favorire chiunque abbia le spalle coperte, indipendentemente dal fatto che questi 40 milioni di euro del 2022 siano destinati ad agevolare un mercato finto, nel quale solo un sesto dei prodotti ha una circolazione decente, mentre tutti gli altri servono a riciclare un po’ di denaro e a creare qualche illusione.
Le commissioni di un tempo andato erano composte dai rappresentanti delle categorie e non da professionisti di commissione, più o meno tutti collegati strutturalmente ai produttori che ottengono i contributi. Allora il film veniva visto ultimato, e non immaginato virtualmente su una sceneggiatura che nessuno ha il tempo di leggere e che serve solo per modificare i punteggi. Il reference di Urbani aveva stabilito alcune regole, ma ci pensò Blandini, allora uomo di punta di Gianni Letta, a demolirle per poter operare favori. Così, passo dopo passo, siamo arrivati ai film “difficili”, all’Anica di Rutelli, alla Cinecittà di Maccanico, alla Rai della D’Amico e Del Brocco, alla Rai che decide tutto e si spaparanza a Cannes ingurgitando aragoste in attesa dei risultati.
Di “difficile” c’è solo il ritorno ad una coscienza sociale delle regole base, quelle che consentano a tutti una certa agiatezza ma nei limiti del decoro, e che suggerivano ai potenti (e non suggeriscono più) di mantenere in vita i settori piuttosto che demolirli come avviene oggi. Quando saranno finite le brioches che lo Stato continua a fornire agli operatori, e sarà visibile il disastro contabile di quelli che oggi appaiono in salute, il cinema che fine farà?
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