di Michele Lo Foco
Che i teatri di posa di Cinecittà siano sempre stati usati per creare debito è vero fin da quarant’anni fa, quando nei bilanci di Cinecittà Spa i crediti verso clienti erano più o meno un terzo del fatturato.
A un giovanissimo consigliere come me era parso subito mostruoso, ma l’anzianissimo consigliere Gian Luigi Rondi suggeriva che la vita era quella e che era inutile agitarsi.
In realtà già allora era in moto un meccanismo corruttivo che consentiva di sostituire cambiali con cambiali senza recuperare mai nulla.
Vecchi tempi nei quali i conti venivano soffocati dalle fusioni, in modo da non comprendere più nulla. Ente Cinema che si fonde con Cinecittà Spa in Cinecittà Holding che poi si fonde con l’Istituto Luce in Cinecittà/Luce che poi si trasforma in Luce/Cinecittà e poi viene venduta ad Abete che nel frattempo, da Presidente di tutto, aveva “privatizzato” i teatri in Cinecittà Studios.
Un pasticcio infinito, soldi buttati in un buco nero cui nessuno aveva il coraggio di mettere un dito. Si erano salvate solo la gestione del Luce di Angelo Guglielmi, mente raffinata, e quella di Cinecittà di Pupi Avati, che però non volle finire nell’ingranaggio dietrologico di Ubaldo Livolsi e si dimise, privando la struttura dell’unica voce onesta della burocrazia statale.
Da lì in poi il diluvio: Rutelli e Blandini vendono ad Abete al grido di “basta carrozzoni statali”. Abete riempie Cinecittà di debiti verso fornitori e l’erario, Franceschini ricompra Cinecittà da Abete al grido di “finalmente i teatri tornano allo Stato” e paga tutti i debiti della struttura oltre a riconoscere un sostanzioso guadagno all’abile imprenditore.
I soldi non ci sono, ma Cinecittà serve per giustificare una presenza del Ministero nel PNRR con ben 300milioni di euro.
Ed ecco che di nuovo si crea l’assalto al bottino, appalti, movimenti, interviste, progetti che non hanno senso, acquisti che non ne hanno alcuno, affitti a società straniere che a loro a volta affittano a società italiane, il tutto senza aver firmato le convenzioni, senza aver giustificato nulla, sotto la vigile direzione di Goffredo Bettini e la esemplare rappresentanza di Maccanico.
La fiction di Cinecittà e gli attori erano stati costruiti con cura.
Nel frattempo, nella ricerca di dare un senso alla struttura, a Cinecittà era stata affidata l’istruttoria delle pratiche di sovvenzione del Ministero, nonché il Pubblico Registro Cinematografico, che dormiva serenamente presso la Siae, il tutto affidato a personale inesperto e conseguentemente terrorizzato di sbagliare.
Ma il pallone andava gonfiato in qualche modo.
Cinecittà implode dopo la verifica della Corte dei Conti, che è quasi impallidita leggendo le carte e controllando la regolarità delle azioni: comincia così un altro annus horribilis dei teatri di posa nati per essere la culla del cinema e finiti nelle mani inesperte dei burocrati franceschiani.
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