di Michele Lo Foco
Ogni cambio di governo si ripropone la questione Rai, ovverosia la modifica della dirigenza, dei telegiornali delle strutture che contano.
Perché la Rai è così centrale? Innanzitutto perché, nonostante tutto, mantiene la leadership dell’audience statale in un confronto costante con le televisioni del Cavaliere che nessuno è mai riuscito a regolamentare secondo giustizia. Leadership vuole dire pubblicità, limitata dal cosiddetto tetto, ma soprattutto opinione: come noto in Italia, tramite le televisioni, i politici sono protagonisti della scena molto più degli attori e dei giornalisti. La politica, diversamente che in altri paesi europei, è proprietaria dello strumento al punto tale che quando all’orizzonte si profila una modifica dei poteri dominanti, la dirigenza Rai è pervasa da un fremito che consiste nella prevedibile ascesa o nella discesa di alcuni dirigenti che a loro volta sono il punto di riferimento di interi gruppi imprenditoriali.
Rai non è solo il campo delle attività dei vari Richelieu e Mazzarino, ma soprattutto un immenso formicaio nel quale i movimenti, le iniziative, le creazioni, le ambizioni, persino le perversioni si intrecciano costantemente.
Dipendenti, precari, consulenti, segretarie animano questo luogo mitizzato dal Cavallo morente di Francesco Messina nello sforzo comune di dare ad un pubblico, ormai prevalentemente anziano, il conforto di una costante compagnia.
Un grande avvocato, scomparso da poco, sosteneva che se la Rai avesse potuto sfruttare l’energia sessuale che la pervade, avrebbe potuto staccarsi dalla corrente elettrica.
Sarebbe stato un risparmio, certamente, come lo sarebbe la razionalizzazione di alcuni contratti, in primis quelli di Fazio, che sono l’espressione economica del potere delle sinistre e per il quale ho presentato un esposto alla Procura.
L’Italia è così, mesi o anni per alzare le pensioni di quindici euro e trecentomila euro al mese a Fazio per divertirsi con gli ospiti.
In Rai si può.
Ma l’azienda statale è anche una produttrice e divulgatrice culturale: al di là degli intrighi ci sono i programmi, e non sono tutti riprovevoli e assurdi come il Festival di SanRemo: gran parte della programmazione parla di storia, di costumi, di attualità, ed è comunque una finestra sul mondo.
Rai è in ogni caso testimone diretta di una società in evoluzione e chiunque la amministri, indipendentemente dal partito di appartenenza, accende un potente faro sulle vicende umane.
Alla concorrenza non rimane altro che dedicarsi ai divertimenti più modesti, più volgari, alla ricerca di spettatori disimpegnati e giovanotteschi soggetti alle pulsioni elementari che sono soddisfatte dalle veline, dal Grande Fratello e dal gossip.
Questa televisione privata che sa di sudore completa il pubblico nazionale.
Per comprendere l’anima della Rai bisogna guardarla dall’alto, da molto in alto, dimenticare che Saccà è passato da direttore generale a direttore della fiction, scordarsi della “Like shore”, corrispondente americana di Rai Cinema, ignorare che gli arabi distribuiscono il palinsesto italiano nel mondo, e ragionare sul fatto che anche Fazio, Vespa, l’Annunziata, la Venier più di un pollo al giorno non possono ingurgitare.
Vista dall’alto Rai è una apprezzabile industria culturale cui è dovuto il rispetto che si ha per le istituzioni sociali, per la chiesa e la Caritas, per le Asl e per gli ospedali, per tutte quelle strutture che ci consentono una serena convivenza.
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